Di Claudio Staiti

In una Sicilia tormentata dalla violenza sprigionatasi dalle trincee della Grande guerra, dominata dal latifondo e dall’irresistibile ascesa della “nuova mafia”, si dipana la storia raccontata, sotto forma di diario, dal giovane Francesco Marretta, impiegato nella stazione ferroviaria di Torrebruna, dell’omicidio del parroco Innocenzo Misseri, avvenuta una sera di primavera del 1920. Sfogliando le pagine ci si rende conto che il piccolo paese non è nuovo a questi fatti di violenza e che scoprire l’identità dell’assassino non è un affare semplice. Dietro le spoglie del diarista si cela l’autore: Santo Lombino, storico, già docente di scuola, e prolifico “trovatore” di memorie autobiografiche di siciliani, una fra tutte, quella di Tommaso Bordonaro, “La spartenza”, di cui ha curato la pubblicazione, e che nel 1990 ha vinto il premio organizzato dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano (Arezzo). L’autore di Né luna né santi (Navarra Editore, pp. 141, 12 euro), nato a Bolognetta (Palermo) nel 1951, ha partecipato ai moti operai e studenteschi degli anni ’70, collaborando con Mauro Rostagno a Palermo. Si è laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul pensiero di Carlo Pisacane. Ha lavorato in Calabria nelle Ferrovie dello Stato e ha insegnato materie letterarie in Lombardia e in Sicilia e poi storia e filosofia nei licei statali di Monreale e Palermo. Si occupa di memorie autobiografiche, didattica della storia e letteratura dell’emigrazione ed è direttore scientifico del Museo delle Spartenze dell’area di Rocca Busambra di Villafrati (PA).

Da dove ha tratto ispirazione per la stesura di questo suo primo romanzo? Quale paese si cela dietro Torrebruna?

Avevo organizzato per il marzo 2020 un convegno di studi storici sulla violenza in Sicilia nel periodo 1915-1925, ma l’insorgere della pandemia ha impedito che si svolgesse. Quando siamo stati costretti alla clausura ho sentito un forte senso di impotenza che mi ha spinto a prendere la penna per allontanare ansie e angosce e non stare attaccato alla televisione che mandava in onda virologi, infettivologi, epidemiologi, farmacologi, ecc. Quanto al luogo, ho preso spunto da storie accadute nel mio paese natale, Bolognetta, in provincia di Palermo, comune dove, a parte una quindicina di anni vissuti per lavoro tra Calabria e Lombardia, ho sempre vissuto. Cento anni fa aveva duemila abitanti, adesso conta più di quattromila anime.

La storia viene narrata in prima persona dal giovane ferroviere Francesco Maretta. Come mai ha scelto la forma di racconto di tipo diaristico, con tutti i suoi vantaggi e i suoi limiti?

La scelta del ferroviere come narratore deriva dal fatto che per poco meno di dieci anni ho lavorato come tale nel compartimento di Reggio Calabria. Per quanto riguarda la forma, mi hanno detto che, in effetti, un giallo in forma di diario è cosa rarissima. Credo che la scelta sia anche in questo caso il risultato di una sorta di… deformazione professionale. Nel senso che da più di trenta anni mi occupo di cercare, scoprire, raccogliere memorie, diari, epistolari di gente comune. Ho operato in modo che la maggior parte di essi arrivasse all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, e di un nutrito gruppo di essi ho curato la pubblicazione. Il primo testo autobiografico di cui mi sono occupato è stato “La spartenza” di Tommaso Bordonaro, edito da Einaudi nel 1991 con prefazione di Natalia Ginzburg e da Navarra nel 2013 con prefazione di Goffredo Fofi.

Lei scrive nella nota introduttiva che questo testo è il racconto di una comunità in cui vivevano insieme “vittime, carnefici, spettatori”. Che tipo di Sicilia delinea questo racconto? Quanto è cambiata oggi rispetto al tipo di isola che emerge dal racconto?

Ho cercato di immaginare una Sicilia in cui tutto era ancora possibile, in cui nulla era deformato per sempre e in cui potevano ancora vincere forze sociali aperte alla giustizia, alla democrazia, al miglioramento delle condizioni socio-culturali. Ne era emblema la presenza di una linea ferroviaria nella realtà della provincia di Palermo, che significa (significava) potenziale facilità di spostamento, di contatti, di avanzamento economico. Nel 1959 la linea a scartamento ridotto che collegava Palermo S. Erasmo a Corleone è stata sciaguratamente chiusa dal governo regionale, a vantaggio del trasporto pubblico e privato su gomma. Questa scelta, unita a quella dello smantellamento dell’agricoltura e a quella della “industralizzazione senza sviluppo” (Gela, Milazzo, Augusta) ha fatto della Sicilia un’appendice periferica dell’impero.

In occasione del processo per l’omicidio dell’arciprete sfilano una serie di personaggi che sembrano attinti dallo stesso pozzo a cui attingevano scrittori come Sciascia o Camilleri. Quanto e come hanno influito in lei precedenti così illustri per la stesura di questo noir?

Anche senza volerlo, le letture sciasciane fatte nel corso della vita hanno certamente lasciato delle impronte sulle mie corde letterarie. Di Camilleri non ho letto i gialli, ma ho apprezzato molto i racconti ed i romanzi storici (Il Re di Girgenti, La lettera di componenda, La concessione del telefono…).

La conclusione è affidata a un sogno ma è comunque lasciata al lettore la possibilità di crederci o di trovare da sé il bandolo della matassa. Come mai questo finale “aperto”?

Appartenevano alla realtà dei fatti diversi filoni per arrivare alle responsabilità degli omicidi e risolvere il “giallo” e io ho voluto dare al lettore le carte in mano per orientarsi e farsi una propria idea, collaborando, come mi pare giusto, alla elaborazione del prodotto finale.

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