MESSINA. Ieri, intervenendo dopo le numerose polemiche dei giorni scorsi, l’assessore Dafne Musolino è intervenuta a commentare l’ordinanza “decoro” varata dal sindaco Cateno De Luca contro accattonaggio, ambulantato e mendicanti, chiarendo la posizione dell’amministrazione e le ragioni dell’ordinanza. Oggi le risponde il ricercatore universitario Pietro Saitta, autore di numerosi studi in materia di sociologia dell’economia informale e di marginalità urbana (e blogger per LetteraEmme).

 

Sotto assedio per la recente ordinanza di contrasto alla povertà emanata dalla Giunta De Luca, lo scorso 18 luglio l’assessora Dafne Musolino è intervenuta con un comunicato con cui giustifica le recenti scelte politiche attraverso argomentazioni di buon senso e facendo esplicito riferimento a “ciò che tutti sanno”.

Se i richiami al buon senso rappresentano in effetti il mantra della comunicazione e dell’azione politica contemporanea, in qualità di sociologo dei fenomeni criminali e urbani, impegnato nello studio della marginalità da quasi due decenni, non posso che contraddire l’assessora su molti punti, facendole notare che “quello che tutti sanno” coincide pochissimo con quello che la ricerca sociale osserva. E, malgrado la crescente diffidenza pubblica verso l’Università, non posso altresì astenermi dal notare che nella divisione del lavoro istituzionale la ricerca serve (o, meglio, servirebbe) a orientare l’azione pubblica. Aggiungo inoltre che ho maggiore fiducia nelle osservazioni mie e dei miei colleghi che nelle generalizzazioni dell’assessorato, oltre che nei confronti di “di ciò che tutti sanno”. Ed è per questo, naturalmente, che intervengo.

In primo luogo occorre notare che le misure implementate dalla Giunta dovrebbero servire a fronteggiare situazioni emergenziali che allo stato non sono presenti in città. Sia nel senso che non si assiste ad alcun picco di attività illecite, sia in quello che certe situazioni sono croniche e necessitano dunque di interventi strutturali (e non, per l’appunto, emergenziali). In un quadro così consolidato ciò che servirebbe sarebbero, da un lato, azioni di contrasto alla povertà; e, dall’altro, di integrazione dell’ambulantato all’interno di piani territoriali concordati con gli operatori (per arginare, per esempio, i problemi arrecati alla circolazione).

Sul secondo aspetto, quello dell’ambulantato, non sono in effetti mancate varie azioni nei mesi scorsi. Anche se, evidentemente, qualcosa si è inceppato di recente. Vi è da chiedersi, infatti, come sia possibile interdire la litoranea persino agli ambulanti muniti di regolare licenza e tracciare così delle evidenti gerarchie tra imprenditori di rango superiore (per esempio, i gestori di lidi) e inferiore (gli ambulanti specializzati nella vendita di cibo e bevande).

Ma è sul primo fondamentale punto, relativo al contrasto non dei poveri, ma della povertà, che viene da chiedersi cosa sia stato ideato nel corso di quest’anno dalla Giunta di cui è membro l’assessora. Se, come osserva una infinita letteratura, le vere politiche di cittadinanza sono le politiche sociali locali, quali sono le iniziative intraprese da questa Giunta per garantire tali diritti in senso universale? (E che possibilmente non si risponda la Casa di Vincenzo, perché quello non è un intervento strutturale). 

In altri termini, così com’è stato notato da altri nei giorni scorsi, si ritiene forse che la povertà scompaia perché si vieta di chiedere l’elemosina davanti ai monumenti? E cosa dire dello sfruttamento (che è comunque molto meno diffuso di quanto non si dica)? Che questo si esaurisce se si chiede a un bambino, a una donna o a un demente di spostarsi di cento metri?

Si ha l’impressione che la Giunta sia vittima di una tendenza molto comune tra le amministrazioni che consiste nell’inseguire “mode” relative alle politiche urbane. Si tratta dello stesso principio, insomma, per cui progetti relativi per esempio a rotonde o a piazze vengono riprodotti e applicati da comune a comune, da nord a sud, realizzando interventi-fotocopia che non risultano spesso molto efficaci.

La mia impressione professionale è che provvedimenti come quelli emanati in questi giorni, di contrasto a fenomeni che disturbano il senso estetico dominante (per l’appunto, il “decoro”) sono semplicemente cosmetici. Forse potranno soddisfare, se mai saranno veramente applicati, il bisogno di rimozione di un visibile disturbante. Ma non intaccheranno minimamente cause e sostanza dei problemi, lasciando questi “inestetismi sociali” liberi di riemergere all’allentarsi inevitabile della pressione istituzionale. L’assessora, infatti, saprà che la realtà ha il fastidioso difetto di imporsi sui volontarismi inconsistenti.

Poi tocca contraddire l’amministratrice anche su un altro punto. A partire dagli anni novanta si è iniziata a diffondere la storiella, priva di dati concreti, se non quelli dei centri studi di Confcommercio, per lo più discutibilissimi sul piano metodologico, che la contraffazione nuocesse al commercio e all’industria. In realtà è del tutto evidente che tra il mercato informale e quello formale non vi è nessun rapporto di concorrenza. Ma, al massimo, di integrazione.

Il venditore e l’acquirente, poniamo, di un falso orologio di lusso oppure di una borsa contraffatta non sottraggono nulla ai rivenditori ufficiali di tali prodotti perché l’acquirente del prodotto falso non oltrepasserebbe la vetrina dei loro negozi. Dal punto di vista delle pratiche di consumo l’offerta seleziona infatti la domanda (a meno che, naturalmente, non si faccia una rapina al negozio stesso o a un passante per procurarsi i soldi necessari). Ne deriva che chi non è in grado di acquistare una merce di lusso o acquista un bene surrogato oppure non compra nulla. Non vi è dunque alcuna competizione tra falso e originale. Al contrario, tra le fasi produttive vi è integrazione perché spesso le stesse imprese che contraffanno i prodotti sono anche quelle che realizzano i prodotti regolari. La qual cosa ci parla delle catene di subappalto, dell’evasione fiscale collocata in alto e della funzione del marchio nel giustificare i prezzi finali.

Dimensioni e problemi su cui la Giunta non ha potere, certo. Ma questa stessa Giunta – come decine di altre in Italia, del resto – non si fa alcun problema a eliminare i segni superficiali del malessere (i mendicanti, i lavavetri, gli accattoni). Questi, infatti, sono sintomi che risultano per alcuni cittadini – collocati in posizioni spesso solo relativamente favorevoli – sgradevoli da avvertire. E che, però, ci piaccia o meno, a tali sintomi o segni corrispondono persone in carne e ossa, vite e nuclei familiari che non hanno finito col navigare nella precarietà esistenziale per diletto, anche se magari nel tempo hanno finito con l’adattarvisi. Corpi, comunque, che devono nutrirsi, lavarsi, urinare, defecare e riprodursi. E che in assenza, per fortuna, di un piano di sterminio di massa sono qui per restare.   

Considerazioni analoghe possiamo avanzarle se parliamo di vendita e acquisto di prodotti alimentari. L’acquirente che acquista queste merci in strada è spesso quello che potrebbe comprare in un negozio regolare solo erodendo quote superiori del proprio insufficiente capitale e, dunque, approvvigionandosi con maggiori difficoltà. Precludere la possibilità di acquistare in strada significherà pure, come dice lei nella sua nota dei giorni scorsi, danneggiare un negoziante. Ma eliminare un venditore ambulante significa anche ridurre sensibilmente la capacità di acquisto e riproduzione di un cittadino a basso reddito, costringendolo verso opzioni maggiormente costose.

Perciò, assessora, le due possibilità sopra paventate si equivalgono? In altri termini, lei chi preferisce danneggiare tra il negoziante e il cittadino “povero” (in senso assoluto o relativo)?  Specie se – al contrario di quello che lei e “tutti” saprebbero – la compresenza delle opzioni regolari e informali è in realtà proprio quella condizione che permette di garantire la coesistenza all’interno del medesimo spazio urbano del venditore regolare così come dei cittadini “poveri” (ambulanti e acquirenti dal portafoglio limitato).

Per gli studi seri – ossia per quelli che tengono in conto la complessità e la pluralità delle condizioni presenti nella società – una certa quota di evasione è infatti fisiologica perché, pur costituendo una perdita per l’autorità, permette di attenuare altri costi sociali e dunque, entro certi limiti, va tollerata (come in effetti lo è stata a lungo, non soltanto a Messina e non solamente in Italia).

Per concludere con i punti sollevati dal suo comunicato del 18 luglio, assessora, si faccia dire infine che la funzione di un’amministrazione non consiste tanto, o soltanto, nel dare agli elettori una risposta qualunque questa sia; ma anche nel comunicare a una cittadinanza che esige soluzioni erronee a problemi parziali (inclusi, dunque, i commercianti eletti a interlocutori preferenziali della Giunta) che non c’è nessuna emergenza in atto e che la società è, come abbiamo detto, complessa.

Ossia contempla interessi, redditi e sfortune molto differenti tra loro. E allora un po’ di tolleranza, tanto da parte delle istituzioni quanto dei cittadini, è il vero rimedio al malessere e a quel “gioco a somma zero” (con guadagni, cioè, per una parte sociale sola) in cui la vita associata si è da tempo trasformata, in primo luogo per colpa degli egoismi distribuiti nel corpo sociale e, in seconda battuta, del timore di chi governa di opporsi a queste tendenze barbare e respingerle. Tale funzione, Assessora, ha un nome nobile in letteratura: si chiama funzione promozionale del diritto e delle politiche. Una funzione ben più nobile e complessa che quella repressiva che il “popolo” invoca e la classe politica asseconda.

Sarebbe bene, inoltre, che università e politica iniziassero a dialogare. E per questo la invito a un confronto pubblico da tenersi nelle settimane, o più realisticamente, nei mesi a seguire, magari in presenza di ospiti nazionali con cui interloquire sulle politiche urbane sostenibili, al fine di sfatare i miti di cui partecipa, spesso in buona fede, anche la classe politica. Ossia lei stessa e il Sindaco De Luca.

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Ornella
Ornella
21 Luglio 2019 10:09

Ho letto con molto interesse il commento del prof. Saitta sull’ordinanza che vieta l’accattonaggio, la richiesta di elemosine e quant’altro. Sono assolutamente d’accordo con il Professore. Se togliere ai poveri l’ultima possibilità di avere un piccolo aiuto, è una soluzione disumana, non risolve comunque il fatto che la povertà andrebbe combattuta con politiche umane e sociali.