MESSINA. Per Angelo Campolo, classe ’83, nato e cresciuto a Messina, d’adozione ormai milanese, il mondo del teatro e della recitazione è un qualcosa di intrinseco ed ancestrale. È il suo posto nel mondo.  Così prima ancora di diplomarsi come attore alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, sotto la direzione di Luca Ronconi, Angelo inizia a muovere i suoi primi passi sul palcoscenico della città dello Stretto. Ad undici anni, al Savio, scrive e mette in scena la sua prima commedia, mentre da adolescente entra a far parte dell’associazione di Vincenzo Tripodo recitando in “Nemici del cuore” con un nucleo di coetanei. Successivamente, a causa del trasferimento di Tripodo a New York, pone insieme agli altri del gruppo le basi di quella che poi, nel 2002, sarebbe diventata la DAF Project, grazie alla “Compagnia dei Giovani Holden”. Una vita divisa tra Milano e Messina, numerosi spettacoli all’ attivo, sia come attore che come autore, premi ricevuti, un libro scritto, ed un percorso intenso da formatore contraddistinto dalla sua grande umanità e sensibilità. Angelo Campolo ad oggi, dunque, lavora come attore, autore, regista e formatore teatrale, continuando a portare avanti con l’associazione messinese DAF Project percorsi artistici e educativi rivolti ad adolescenti, spesso in contesti complessi, e raccontando parte di queste esperienze attraverso spettacoli di narrazione. Il 24 ottobre 2025, a Roma, per l’appunto, alla Casa del Cinema, è stato presentato il suo primo cortometraggio “Antonino”, prodotto da Gran Mirci Film con il sostegno di Nuovo IMAIE ed in collaborazione con Dalek Studio, e nel mese di marzo debutterà a Milano con il suo nuovo lavoro “Prendi Parola” prodotto dal Teatro Franco Parenti.

Come e quando è scattata la scintilla con il mondo del teatro e della recitazione?

“Non ricordo un prima della mia vita senza teatro. L’infanzia è stata un periodo difficile alla ricerca di una mia dimensione. Ho vissuto molti anni come “in apnea”, mentre guardavo intorno a me coetanei che sembravano muoversi leggeri nel loro quotidiano. Il teatro è stato l’ossigeno che mi mancava: un luogo dove respirare, dove non serviva fingere, dove potevo mettere in ordine il caos in cui vivevo allora.”

 

Quali sono stati gli step più importanti del tuo percorso?

“Gli anni alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano restano il primo punto fermo: una formazione intensa, a volte dura, che ha continuato a risuonare nel tempo, nel bene e nel male. A seguire, gli anni da scritturato con registi molto diversi tra loro, una palestra che mi ha dato strumenti e sguardi differenti. Un passaggio decisivo è stato mettere in scena “Vento da Sud Est” con otto ragazzi del Mali sbarcati a Messina nel 2015. Con loro si è spostata la mia traiettoria umana e professionale, ho iniziato a ripensarmi come formatore oltre che come attore. Ci sono poi tanti incontri, molte personalità che hanno inciso sul mio percorso, soprattutto a Messina. Poi sono arrivati i primi laboratori con minori in messa alla prova e la scoperta che il teatro poteva diventare un ponte educativo. Il debutto di “Stay Hungry” al Fringe Festival di Milano nel 2019: per la prima volta ho portato in scena quel cambiamento, raccontando la tensione tra formazione e vita vissuta.”

 

Come arrivi al passaggio da attore ad autore e formatore?

“È nato tutto da una crisi, che con il senno di poi riconosco come una naturale evoluzione. Ho sempre avuto una propensione alla didattica, al desiderio di trasmettere qualcosa agli altri. Nel 2017 il Teatro Vittorio Emanuele di Messina ha smesso di produrre e, dopo anni ricchi di opportunità, ricordo ad esempio il bellissimo progetto biennale Laudamo in Città, ma anche i ruoli da attore (Elj in Trovarsi di Pirandello diretto da Vetrano e Randisi o Amleto di Shakespeare con la regia di Ninni Bruschetta), quel percorso si è interrotto di colpo. Anche la mia compagnia, DAF Project, sembrava destinata a rimanere intrappolata nel tentativo di riproporre strade ormai desuete. Un giorno, forse, qualcuno racconterà quanto velocemente si è consumata la crisi economica e “di senso” del teatro italiano e quanto clamorosamente fingiamo di ignorarlo in una “coazione a ripetere” che ha dell’incredibile.”

 

Dal punto di vista pratico com’è avvenuto questo cambiamento?

“Ho deciso, ai tempi, quindi, di lasciare nuovamente Messina. Dentro quello smarrimento è arrivata una svolta. Scrivere, incontrare i ragazzi, guidare laboratori in contesti complessi mi ha costretto a guardare il teatro, e la mia vita, da un altro punto di vista. Durante il lockdown sono tornato a studiare: mi sono iscritto all’Università Bicocca di Milano e ho conseguito una laurea in Scienze della Formazione. Al di là del titolo, è stato il percorso a segnarmi. Ho capito quanto diverso sia il mestiere del teatrante da quello del formatore e quanto fosse possibile costruire una strada personale, dove le due cose non si escludono ma si potenziano. Da lì è iniziata una nuova fase, nella quale hanno preso forma anche progettualità più lunghe con diversi teatri stabili.”

 

C’ è un filo invisibile, nella cifra stilistica o nella struttura, che lega e contraddistingue i tuoi lavori?

“Cerco uno sguardo personale sulle cose, anche se è un esercizio complesso. Mi interessa offrire a chi mi segue, in sala o in laboratorio, la possibilità di stupirsi, di guardare la realtà da un angolo non scontato, lontano dalle narrazioni correnti. Spero sia accaduto raccontando il tema dell’integrazione in Stay Hungry, o entrando nel mondo della giustizia minorile con A te e famiglia, ma anche in un progetto “su commissione” come il racconto della vita di Vincenzo Bellini portato in scena al Museo Regionale di Messina per il festival belliniano nel 2023. Ogni progetto nasce da un incontro che apre una domanda e invita a vedere ciò che già conosciamo con occhi nuovi.”

 

Tre progetti a cui sei più legato…

“Sono davvero tanti, e per questo mi considero fortunato. Penso ai mondi scenici creati insieme a Giulia Drogo, che è stata ideatrice e compagna di strada in tutti i progetti che abbiamo realizzato fin qui. Ultimo dei quali “96 ore”, prodotto dal Teatro Biondo di Palermo o “Fermata Marivaux” dal Teatro Stabile di Catania. Sono molto legato anche al ciclo di spettacoli e laboratori nati con Annibale Pavone a Messina intorno al 2010, perché lì ho imparato cosa significa costruire un immaginario condiviso e restituirlo alla città. “Stay Hungry”, che citavo prima, segna il momento in cui la mia traiettoria è cambiata e il teatro si è intrecciato con l’educazione. Attualmente lo spettacolo è ancora distribuito su Raiplay e ha toccato più di novanta città dal debutto. “A te e famiglia” porta in scena un tratto più intimo del mio lavoro: il rapporto con genitori, figli e ferite ereditarie. E, più recentemente, “Antonino”, piccolo film presentato alla Festa del Cinema di Roma.”

 

Il 24 ottobre a Roma è stato presentato il tuo primo cortometraggio “Antonino”. Come nasce?

“Nasce da un’esperienza reale vissuta nel mio primo laboratorio teatrale con adolescenti in messa alla prova. L’USSM, Ufficio Servizio Sociale Minorenni di Messina, mi chiamò per guidare un gruppo ospitato alla Caritas. In quel percorso ho incontrato un ragazzo davvero “difficile” che mi ha spinto a rimettere in discussione molte cose, riflettendo sulla linea sottile che divide fallimento e possibilità. Un anno fa Giuseppe Ministeri, produttore del film per Gran Mirci Film, mi ha convinto a trasformare quell’esperienza in una sceneggiatura, poi risultata vincitrice del bando NUOVO IMAIE, che ci ha permesso di realizzare il cortometraggio.”

 

Quando e dove è possibile vedere “Antonino”?

“Dopo la prima, vorremmo portare “Antonino” in giro per l’Italia e mi piacerebbe accompagnare ogni proiezione con un incontro dedicato, per parlare insieme a studenti, insegnanti e operatori del senso di questa storia, dell’esperienza umana che c’è dietro e del teatro inteso come strumento per scoprire cosa davvero ci appassiona nella vita. Sapendo bene che una passione, nella vita, spesso può salvarci. In questo momento c’ è una distribuzione indipendente che sta raccogliendo l’adesione di tante scuole. Le scuole, le comunità e gli spazi culturali interessati a organizzare una proiezione possono compilare un modulo reperibile su www.granmircifilm.it/2025/02/12/antonino/. Contiamo, a prescindere, di realizzare una proiezione aperta alla città di Messina nel mese di gennaio.”

 

Le due città tra cui ti dividi, Messina e Milano, nel tuo percorso ti hanno più aiutato o ostacolato?

“Sono due città che ho visto trasformarsi negli anni. Milano, di fatto, mi ha adottato ed “educato” al rigore in modi sempre diversi fin da quando ero piccolo. Non è una città facile da amare, spesso ti fa incazzare, oggi sembra irriconoscibile dalla Milano del 2002. Però è l’unico luogo che mi ha aperto orizzonti artistici e di pensiero come nessun altro. Il senso di incontrarsi e ritrovarsi in un teatro a Milano, forse anche per la freddezza che a volte si respira fuori, ha un calore e un valore speciale. Di Messina, man mano che il tempo passa, sento di aver vissuto anni molto belli: l’adolescenza, certo, ma soprattutto l’incontro con persone fantastiche nei primi dieci anni del 2000, la lista è lunga. Personalità che mi hanno aperto orizzonti mai provinciali, mai chiusi rispetto ad altre realtà. Oggi la vedo pericolosamente spopolata, ma resta la radice da cui parto e a cui torno.”

 

Al di là della programmazione degli spettacoli in città, qual è la situazione a Messina per tutti coloro che hanno voglia di avvicinarsi al mondo del teatro?

“Bella domanda, e complicata. Non sono davvero in grado di rispondere in modo preciso perché, da più di dieci anni, non pratico più il teatro come luogo di pura rappresentazione pur rispettandolo, quindi faccio un po’ fatica a leggere ciò che oggi si produce o si mette in scena. Posso dire che mi dispiace vedere come dell’esplosione di spazi, iniziative e laboratori pre-Covid, tra il 2017 e il 2019, sia rimasto purtroppo molto poco, salvo alcune realtà che resistono e programmano come i Magazzini del Sale o il teatro dei 3 Mestieri. Allo stesso tempo è innegabile che ci siano personalità e individualità davvero significative e interessanti. Non parlo solo di attrici o attori, ma di teatranti completi, performer della scena, anche tra i giovanissimi, che si distinguono nel panorama nazionale. C’è desiderio, ci sono talenti ed energie giovani che cercano un luogo dove crescere. Servono spazi stabili, percorsi continui e caratterizzati, una visione condivisa che non si chiuda, che mantenga aperto il dialogo con ciò che accade fuori dall’isola.”

Messina ha avuto una sua scena teatrale da cui imparare?

“La cosa che mi dispiace, quando penso a Messina, è la sensazione che si sia interrotta una catena di trasmissione. Per decenni la città ha espresso artisti importanti, presenti sulla scena nazionale. Continua a farlo, ma spesso in modo isolato, come se mancasse un luogo riconosciuto da cui partire. Io, anche formandomi a Milano, ho beneficiato di quel passaggio di competenze. Cercavo le storie della generazione precedente: Pavone, Bruschetta, Cicció, Moschella, Marchetti, Caspanello, Scimone, e molte attrici e registe come Brancato, Venuti, Smedile, Sorrenti, Panarello, Cucinotti. Un panorama ricchissimo, che ha nutrito la mia immaginazione.”

 

Tu stai provando a tramandarla questa catena?

“Negli anni ho provato a mantenere vivo quel filo, anche con l’esperienza di Laudamo in Città. So che tanti miei allievi riconoscono quanto sia importante conoscere ciò che c’è stato: non per ripeterlo, ma per trovare con più consapevolezza la propria strada. Oggi vedo giovani attori e attrici che raggiungono risultati importanti senza alcun legame con la storia teatrale della loro città. Non conoscono luoghi e momenti che ne hanno formato l’identità. La responsabilità è condivisa. Le istituzioni dovrebbero custodire e coordinare meglio questo patrimonio, e noi artisti messinesi potremmo impegnarci di più nel trasmettere memoria, raccontando il passato con sincerità, comprese le sue occasioni mancate. Da questa consapevolezza nasce una comunità teatrale viva.”

 

Perché è importante il teatro?

“Voglio essere sincero: sono allergico, e lo dico senza giri di parole, agli slogan mielosi del tipo “il teatro salva la vita” o “il teatro fa crescere”. Non credo facciano bene a nessuno. Prima di tutto bisogna capire di quale teatro parliamo. Se ci riferiamo al teatro pubblico, finanziato come ente culturale, allora dovrebbe essere un vero allenamento alla complessità, in un tempo dominato dalla semplificazione e dalla perdita di peso specifico in tutto ciò che viviamo. In questo senso il teatro è educativo perché, se lo pratichi, ti mostra lo sforzo reale necessario per farlo esistere: entusiasmo, fatica, dubbi, collaborazioni umane profonde e un dispendio di energia enorme per un evento che nasce e muore nel giro di poco. Per me il teatro è importante solo se riusciremo a rinnovarne la formula, portandolo anni luce oltre il concetto di “evento a sé” e dentro una dimensione sociale viva, concreta, quotidiana. Una festa civile capace di intercettare mondi che oggi il teatro ignora del tutto. Milano, in questo senso, è un esempio prezioso: la programmazione di tanti teatri mostra come il teatro possa diventare un luogo d’incontro fra realtà diverse. Ma non è l’unico caso. Anche in molte realtà di provincia, spesso più agili e radicate nei territori, si intravedono esperienze capaci di rimettere al centro il valore civile dello stare insieme. Di questo, credo, sentiremo sempre più bisogno.”

 

Un personaggio che vorresti interpretare?

“Il sogno nel cassetto dei tempi da scritturato resta quello di affrontare Cirano de Bergerac.”

 

Qual è il tuo P.S. (Post Scriptum)?

“5 nello spazio! Chi ha fatto un laboratorio con me sa perché…”

 

guest

0 Commenti
meno recente
più recente più votato
Inline Feedbacks
View all comments