Qualche tempo fa ho ricevuto un commento ad una mia intervista, uscita anche su Lettera Emme, relativa al mio vecchio lavoro qui a Sydney, in cui cercavo di dare aiuto e supporto ai ragazzi italiani in arrivo in Australia. La signora in questione, nel commento, si lasciava andare sconsolata nel vedere tanta “pochezza”, spiegando subito dopo che i ragazzi andavano invece aiutati “nel proprio Paese” (dove abbiamo già sentito questa frase?) per fare in modo che non lo lasciassero.

Ora, solitamente mi guardo bene dal rispondere sui social, e di commenti garibaldini relativi alla “lotta che va continuata in Italia, non fuggendo all’estero” ne sono sempre arrivati sulla mia Pagina. La signora ha però avuto la sfortuna di beccarmi in una giornata sbagliata –perché, come le formiche, anche gli emigrati, nel loro piccolo, s’incazzano – e stavolta ho deciso di risponderle (la risposta completa si può trovare qui). 

Tra le tante perle che si possono trovare nelle poche parole della signora e sui cui soprassiedo, c’è un particolare che mi ha fatto ripensare alla Sicilia, e alla mia Messina.

La signora mi sembra infatti interpretare un sentimento abbastanza comune, quello del diritto all’assistenzialismo, che in questo caso si fa pretesa: sei tu che mi devi aiutare a stare bene e non espatriare. Ho un problema, risolvimelo tu.

Al di là del fatto che la richiesta della signora cade su uno che è stato costretto a partire come gli altri, e non si rivolge magari ad istituzioni forse un pochino più adatte (e magari anche responsabili) del Belpaese, questa è una tendenza che gli italiani (non solo quelli dell’Isola) hanno sempre avuto. 

Siamo sempre stati in attesa dell’Uomo Forte, di quello che sapesse affrontare la vita di petto, urlando da un balcone o dal salotto di un talk-show. Qualcuno che ci dicesse cosa fare e come farlo, e di non preoccuparci di niente perchè c’è Lui a prendersi cura di tutto. Di fidarci ad occhi chiusi, che solo Lui sa cos’è meglio per noi. 

Poco importa se poi questi problemi l’Uomo Forte di turno non li risolve mai –anzi nemmeno li sfiora. In quel caso si sistema tutto inventandosene di nuovi, e dando l’illusioni che questi sì, signora mia, questi li stiamo risolvendo alla grande!

E non è sorpresa che quel che succede da troppo tempo a livello nazionale, lo veda io oggi rispecchiato nella mia città. L’approccio che molti miei concittadini hanno avuto e hanno ancora verso il Sindaco Forte che, ancora una volta, ci ha resi noti in tutta Italia per i motivi sbagliati, risale a questo. 

Ho un problema, risolvimelo tu.

Non mi importa come lo fai, non mi importa se per risolverlo devi (per qualche motivo) prendertela con le fasce più disperate e ai margini di una popolazione che già se la passa con pezze al sedere: la guerra tra poveri del sindaco diventa una crociata per difendere il Bravo Messinese (che è povero pure lui, ma non lo sa e tifa per il sindaco).

Prendimi per mano e convincimi che tutto andrà bene. 

Mi piace se urli in televisione, se fai i blitz, se continui a sbraitare che la pacchia è finita quando in realtà, in una città come Messina, basata ancora sul latifondo morale come se vivessimo in un costante Ottocento dell’anima, la pacchia non finirà mai. 

Mi piace che mandi la polizia, fai i verbali e castighi gli impuniti – anche se gli impuniti, per definizione, non verranno mai castigati, vero?

E poco importa se i giovani continuano ad emigrare (che pochezza, la loro scelta!), se Messina si trova, come gran parte della Sicilia, in fondo alla classifica di vivibilità nazionale, se il lavoro scarseggia e i ricchi diventano più ricchi e i poveri stanno su Facebook a scannarsi tra loro e a lamentarsi.

Io mi fido di te, sindaco. Tu sei l’Uomo Forte che tutto aggiusterà. 

Perché di questo abbiamo bisogno, e lo avremo sempre. Una città dove tutti si atteggiano a gente dall’aria scafata, quelli che si sanno arrangiare e della vita ne sanno e non si fanno mettere i piedi in testa da nessuno, e poi abbiamo bisogno di qualcuno che ci urli come fossimo ragazzini, tutti contenti a vederlo fare. A pensare che davvero sta cambiando qualcosa, con i blitz alle prostitute e i barboni presi a calci in diretta Facebook, mentre baroni, faccendieri, sautini e “figli di” continuano a fare gli stessi affari sulla carcassa di questa città e a camminare per le strade come se le possedessero (e non è così, in fondo?).

E tutto questo non solo perché siamo buddaci, sia chiaro (e certamente lo siamo), ma perché l’alternativa è molto più difficile, di sicuro più faticosa.

Scegliere la responsabilità – della propria vita, della propria strada, della propria condotta, perfino del proprio futuro – è qualcosa che l’italiano, il siciliano, il messinese, non vuole nemmeno sentir nominare.

Io li voto perché non devo pensarci, quello è un problema loro – dirà l’onesto cittadino. Ed è vero, s’intende.

Chiediamo ai nostri rappresentanti di essere migliori di noi, e poi restiamo delusi e col gelato sciolto in mano quando, sorpresa!, loro si dimostrano esattamente come noi. Ed è la stessa incredibile sorpresa che abbiamo quando, dopo aver gioito per l’ennesimo blitz del Sindaco Forte, siamo noi a dover beccare la multa. Perché a Messina sbraitiamo per tot ore all’anno perchè qualcuno ha bloccato tutto parcheggiando in seconda fila, per poi girare l’angolo e farlo anche noi. Che ci indigniamo per la sporcizia, e siamo i primi a lasciare le spiagge come un dopo-concerto andato male.

Perché la responsabilità, in fondo, è pericolosa. Ci fa pensare che anche noi abbiamo una parte in un sistema che non funziona, e che amiamo criticare da fuori. Che potremmo fare la nostra parte, invece di aspettare sempre qualcuno che lo faccia per noi. Che potremmo addirittura impegnarci attivamente perchè un sistema clamorosamente marcio possa cambiare anche di poco.

Per questo la responsabilità è pericolosa, e la delega invece salva la vita. Comandare è meglio di fare l’amore (per ripulirla un po’), ma evidentemente anche farsi comandare deve avere dei vantaggi, sennò non si spiegherebbe.

E così, mentre facciamo il tifo per l’Uomo Forte, affinchè faccia quello che non sappiamo fare noi (anche se è qualcosa che non gli abbiamo mai chiesto di fare), gli emigrati scoprono che, insieme ai poveri e agli sbandati, la responsabilità in fondo ce l’avevano loro. 

La responsabilità del non essere rimasti lì a combattere, così come stanno facendo loro.

Che in un sistema dove i soliti noti mangiano la torta e lasciano le briciole a tutti gli altri, la colpa è la loro per non essere voluti morire di fame.

La colpa di non aver creduto in un Uomo Forte che rimettesse a posto tutti i problemi di un Paese cannibalizzato.

La colpa di aver voluto assumersi la responsabilità, dolorosa anche quando positiva, di lasciare tutto per provare a ricominciare.

E questa è l’ultima lezione che ci è stata data, prima di partire.

Ah, tra l’altro la signora non ha mai risposto al mio commento. Probabilmente sta ancora aspettando qualcuno che la aiuti suggerendole cosa dire.

Con calma, signora, non c’è fretta. 

Abbiamo ancora tutta la vita davanti.

La vita che ci siamo scelti.

Forse.

 

www.marcozangari.it

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