Lo scorso 16 agosto, Henry Charles Bukowski avrebbe compiuto 100 anni. Diceva sempre agli amici che gli sarebbe piaciuto arrivare almeno all’anno 2000. Ci era andato vicino, essendo scomparso solo nel 1994, all’età di 74 anni, per un fenomeno che ha del miracoloso come l’esistenza in vita di Keith Richards. Con tutto l’alcol, le risse, i digiuni e le cicatrici, 74 anni sono probabilmente qualcosa che nemmeno lo stesso Hank (come si faceva chiamare dagli amici) avrebbe mai potuto sperare.

Ma la curiosità è forte: sapere cosa avrebbe avuto ancora da dire uno come lui, nel periodo che stiamo vivendo. Come avrebbe vissuto la nascita e la crescita impazzita dei social, per esempio, e con essi la sua faccia butterata unita a citazioni quasi sempre sbagliate, usate per culi e amori analfabeti. Cosa avrebbe detto di questo virus, di queste dichiarazioni programmatiche di bontà, di questa corsa a urlare che l’unica verità reale è la nostra e le altre sono solo stronzate, di questi forzati isolamenti.

Ecco, quest’ultima parte non gli sarebbe dispiaciuta troppo. Perchè Hank aveva vissuto un’esistenza solitaria che lo distruggeva e alimentava la sua macchina da scrivere come nient’altro. Tutto ciò di cui aveva bisogno, diceva sempre, era starsene chiuso in casa con le tapparelle abbassate, lontano da tutti, con una boccia di whisky, qualcosa da fumare e un po’ di musica classica alla radio. Ad andar bene, anche una macchina da scrivere.

Il lockdown, per lui, avrebbe significato poco, anche se sono sicuro che ne avrebbe scritto parecchio.

Perché le sue storie partivano sempre dai personaggi meno ascoltati e più isolati, gli emarginati, i dimenticati, uomini e donne soli come lui. La sua prosa si sviluppava dai problemi a pagare l’affitto, a fare un lavoro orribile o trovarsi una donna decente, e mentre metteva giù le parole, ci illustrava piano piano una concezione di vita espressa in maniera semplice, chiara, per quanto aspra e violenta (ma lui avrebbe detto che era la vita stessa, ad essere aspra e violenta).

Come disse una volta, gli capitava di “scrivere di sesso per tenere sveglio il lettore, e mentre era sveglio ne approfittava per parlargli delle cose che contavano davvero”.

Questo metodo ha avuto i suoi pro e contro. Da una parte è riuscito a raggiungere milioni di lettori con la sua prosa scarna e dritta al punto, riempiendo i suoi reading di gente che andava ad ascoltare le sue poesie come fosse ad un concerto rock -e probabilmente molti di loro non avevano mai preso in mano un libro di poesie prima di allora.

Dall’altra parte, sembra che tutto quel che si ricorda di lui siano le sbronze, le scopate e il linguaggio esplicito. Ora, è chiaro che Bukowski fosse anche questo, ma rientrava nel personaggio che si era astutamente creato all’inizio, per poi restarne in eterno intrappolato.

Non credo esista uno scrittore più sputtanato e frainteso di Bukowski. Se ne sono appropriati gli impegnati e i fancazzisti, gli intellettuali e i bimbiminkia, i finto-rivoluzionari e gli anarchici, gli scrittori dilettanti (se c’è l’ha fatta uno così, perchè mai non dovrei farcela io?) e i fighetti. Forse non è un male che Buk non sia qui per vedere com’è finita, con le sue frasi postate da gente con la foto-profilo di V per Vendetta e dalle influencers in bikini.

Eppure credo che, alla fine, Hank si sarebbe fatto una grande risata ubriaca.

Perché quella è sempre stata la sua forza.

Magari non avrebbe nemmeno avuto internet, perché non gli sarebbe importato. Come detto, viveva bene solo da solo – o in compagnia di una delle sue tante donne. Per sua ammissione non aveva interessi né hobby, oltre la scrittura e le corse dei cavalli. Non aveva intenti politici, pur essendolo in una sua maniera impossibile da catalogare. Non credeva in molto e si divertiva a fare a pezzi tutti i mostri sacri della letteratura (non a caso intitolò il suo libro sul viaggio folle in Europa “Shakespeare non l’hai mai fatto”).

E allora di cosa scriveva, una persona così staccata da tutto?

Di cose piccole, microscopiche, di mondi perlopiù invisibili, di facce che incontrava al lavoro, in carcere, negli ospedali, di storie ascoltate nei bar durante le sue epiche sbronze. E queste storie, così piccole e legate al loro contesto, con lui diventavano universali. Perché parlava della nostra vita, che sia stata nel ’74 o all’epoca del Covid cambia poco. I meccanismi sono quelli, le molle che ci spingono ad agire o a fuggire sono quelle. Nel suo stile lineare, per niente nuovo o rivoluzionario, senza nessun colpo di scena, con trame aperte e spesso poco importanti, riusciva ad inserire storie divertenti e tragiche, buffe e assurde. Ha creato un nuovo modo di intendere la letteratura, partendo proprio da un rifiuto totale della letteratura -non per snobismo, ma semplicemente perché sentiva che i Grandi Autori non parlavano mai della Piccola Gente, della realtà che lui viveva ogni giorno, fatta di lavori orribili, mal di denti, liti, code in auto, bollette e problemi allo stomaco.

Per 26 di questi 100 anni abbiamo continuato a parlare di lui, nel bene e nel male. Si danno giudizi al volo e si passa al prossimo post di Facebook: fa parte del gioco. Nel suo caso, come per tutti gli altri, può valere sempre la regola d’oro di ogni conversazione: se non si ha niente da dire, si può tranquillamente non dire niente.

O al limite – ma proprio in un caso estremo estremo, se non c’è niente di buono su Netflix o se ci siamo già sparati tutto il feed di Instagram, e nessun meme buono da spammare – ma solo in quel caso, potremmo magari provare a leggerlo.

Io, nel dubbio, ve lo consiglio caldamente.

Perché Bukowski mi ha artisticamente salvato la pelle. L’ho scoperto tardi, che di anni ne avevo già 19, ed è stato un Big Bang di cui ancora adesso registro radiazioni e impatto. Per me è stato come trovare quella voce che sapevo dovesse esistere, da qualche parte. E quella voce, per citare il suo “Panino al prosciutto”, sembrava che stesse parlando solo per me.

Da quel primo incontro mi si è aperto un mondo. Ho divorato i suoi romanzi, i racconti, le poesie, rileggendoli come mai avevo fatto con altri libri. Era come se tanti pensieri ancora in embrione, qui e lì, fossero cresciuti e diventati fiori increduli all’improvviso. Come se qualcuno avesse dato una forma alla mia rabbia e mi avesse detto che andava più che bene, essere incazzati come lo ero io. Per la prima volta, capivo cosa cercavo nell’arte: la creazione di un linguaggio – e quindi di una visione – alternativi. Se le cose erano sempre state in un certo modo, non era detto che quello fosse l’unico modo buono, o che mi dovesse andar bene per forza. Buk fu il primo che mi aiutò a togliere quella maschera al mondo, a spingermi a trovarmi un senso tutto mio, rimodellando le sue cicatrici e i suoi bozzi. E lo feci nel primo modo che mi venne naturale: mi sedetti anch’io alla mia macchina da scrivere.

Nei miei 20 anni lessi spesso Hank. Ne parlavo con gli amici (che ormai mi odiavano) davanti ad una birra. “Latinoaustraliana”, il mio romanzo, non sarebbe mai nato senza l’ispirazione di Hank, che diede una voce ben precisa al mio Mattia Pascà. Era facile da riconoscere, ed era il mio modo di omaggiarlo.

Nei miei 30, l’ho letto sempre meno. Ogni tanto lo riprendevo, come si fa quando peschi una cartolina scritta da un amico con cui ti sei perso di vista: fai un bagno di nostalgia, accarezzi l’idea di rispondergli ma sai che non succederà, e che rimetterai quella cartolina nel cassetto.

I motivi sono tanti e lunghi, ma credo che in parte abbiano a che fare con quelle lotte quotidiane di cui Hank scriveva. A 20 anni ragioni per teorie: dopo, il mondo ti presenta il conto, e tu sprechi tutte le tue energie per poterlo saldare.

Eppure sapevo che Buk era sempre lì, da qualche parte, in quel luogo dentro di me che aveva contributo a creare, e che mi dava la forza per tirare avanti – anch’io, adesso, tra affitto, gomme a terra e malditesta.

Per questo voglio ringraziarlo, ovunque sia, nel suo centenario, e berne uno alla sua, dicendogli che lo ritengo ormai un amico.

E so bene che lui non voleva avere amici, ma il brindisi no, quello gli avrebbe fatto piacere.

Alla tua, Hank. Alla fine ci sei arrivato comunque, all’anno 2000.

Altri 100 di questi anni.

 

www.marcozangari.it

 

 

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Fabiano
Fabiano
27 Agosto 2020 14:11

Complimenti per l’ottimo articolo.Finalmente i luoghi comuni messi da parte.”Nato per rubare rose” o “Non c’è niente da ridere” sono pietre miliari.Rinnovo i complimenti.

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[…] a dare, tu, la felicità a Van Gogh, fammelo sorridere Bukowski o portami Cesare Pavese a sorridere nei prati e avrai fatto il danno dei danni, roba da far girare […]