Fin dalla prima volta in cui abbiamo parlato di questa rubrica con Marino Rinaldi e Alessio Caspanello ho avuto chiaro che, presto o tardi, avrei scritto di Cuba. Perché è stato uno dei posti più incredibili in cui sono stato e uno dei viaggi più belli che ho avuto l’opportunità di fare. Allo stesso modo, ho avuto chiaro che sarebbe stato uno dei racconti più difficili. Perché parlando di Cuba è facile scadere nei cliché e finire col raccontare ciò che tutti in qualche modo già sanno. E, così, ho capito che l’unico modo che avevo per affrontare questo racconto era quello di iniziare dal ricordo delle chiacchierate, degli scambi e delle varie avventure avute con i cubani nel corso delle settimane trascorse sull’isola. Qui ritrovo un’autenticità che mi consente di rompere il ghiaccio dei miei ricordi cubani.

 

 

Questo racconto ha inizio nell’autostazione di Santiago, quel giorno in cui, arrivando nella perla del Oriente, Simone (il compagno di mille avventure di cui già vi avevo accennato in questo racconto) ed io venimmo accolti ed acclamati a gran voce da una quindicina di persone, ognuna delle quali aveva in mano un cartello con su scritti i nostri nomi e cercava di farsi largo tra la folla per richiamare la nostra attenzione. Venivamo da Holguín, e siccome Cuba a tratti sembra un grande, enorme villaggio, succede che si conoscano un po’ tutti, di città in città. E quindi il proprietario della casa particular (che sono come degli Airbnb autogestiti) dove alloggiavamo aveva già preso contatti con alcuni conoscenti di Santiago, trovandoci dove dormire e dicendo di non preoccuparci, ché i padroni di casa ci sarebbero venuti a prendere al pullman. Ed in effetti vennero. Fin troppi, direi. Come poteva essere che si fossero moltiplicati e che ora stessero sgomitando, gridando e pretendendo, tutti loro, di essere gli amici del signore di Holguín, nonché nostri ospiti di Santiago? Semplice: perché, quando i veri proprietari della casa dove saremmo andati a stare avevano avuto la malsana idea di scrivere il nostro nome su un cartello per farsi identificare, tutti i procacciatori di clienti per le casas particulares di Santiago lì presenti avevano deciso di imitarli e di spacciarsi per gli ospiti dei due italiani in arrivo, come avremmo capito di lì a poco. “Federico, Simone, vengan aquí! Los llevamos a la casa particular! Aquí estamos!”. Una contesa inverosimile, tra il nostro stupore e la nostra, ancor più grande, incomprensione. 

 

 

Questi sono i cubani. Intraprendenti, ti spiazzano, cercano di cogliere ogni occasione al volo. All’inizio puoi anche avere l’impressione che cerchino di fregarti – e forse a tratti è davvero così: quante volte approcciano il turista europeo provando a spillare qualche euro o a guadagnare qualche cocktail – ma sempre con sportività, provandoci ma apprezzando chi mangia la foglia e smaschera il gioco. Spesso vivono di espedienti, i cubani. Un’abitudine frutto, probabilmente, tanto dell’isolamento e del devastante embargo statunitense, quanto di un sistema, quello della Rivoluzione, che i più giovani a volte faticano a comprendere.

Ma è proprio qui che sta la chiave per capire Cuba. Nell’accogliere queste occasioni, nel lasciarsi andare, nell’incontro senza pregiudizi né preconcetti, nel parlare e soprattutto nell’ascoltare. È così che, forse, si può riuscire a districarsi tra le mille contraddizioni con le quali il viaggiatore si trova ad avere a che fare scoprendo l’isola.

 

 

Proprio a Santiago, capitale artistica del paese e focolaio della Rivoluzione castrista, si collocano alcuni dei ricordi migliori in questo senso. Con le serate passate a chiacchierare, suonare, mangiare e bere (rum, ovviamente) con Dayamí, la proprietaria della casa particular, e i suoi amici Milaida, Manolo ed Eduardo. Ricordo, in particolare, le chiacchierate sulla Rivoluzione e sui suoi nodi irrisolti, ed il loro spirito critico verso alcuni aspetti del castrismo che raccontavano senza peli sulla lingua, senza per questo essere più teneri verso il capitalismo yanqui. «Sai cos’è, voi europei pensate che noi alcune cose della Rivoluzione proprio non riusciamo a capirle, che la sosteniamo senza farci domande, perché non abbiamo altra scelta o perché non sappiamo quello che c’è altrove. Ma ti pare che non abbiamo idea di come funzionino le libere elezioni o la libertà di stampa? Conosciamo i vostri sistemi così come capiamo i limiti del nostro. Però, tra i due, continuiamo a preferire questo». Questo quel che raccontavano loro, i nostri amici di Santiago. Senza nascondersi, con una timida fierezza. E poi c’erano quelli per cui i Fidel e Raul erano eroi. E quelli per cui erano ladrones. Insomma, di tutto un po’, perché a Cuba si parla molto, ed in maniera schietta, con chi dimostra di essere in grado di ascoltare.

Proprio Milaida, presenza costante nelle nostre serate a Santiago, oltre a regalarci una bottiglia di rum casereccio alla nostra partenza, sfruttando il suo impiego nelle ferrovie riuscì a regalarci anche una delle esperienze più belle di tutto il viaggio, facendoci prendere un treno notturno per Santa Clara, dal quale normalmente i turisti si tengono alla larga, su precisa indicazione di guide e blog. Esperienza mistica, invece, quella del treno: conoscere cubani in luoghi per cubani e non per turisti – qui così come nei ristoranti dove si paga in moneda nacional, di gran lunga la più debole delle due valute usate a Cuba, e quindi marchio di qualità di un luogo che il turista medio evita – significa aprirsi spazi di interazione, fondati su rispetto e curiosità. Spazi difficilmente riscontrabili nella selva di jineteros (la parola locale per designare chi vive appunto di espedienti, speso grazie ai turisti) che affolla le strade in cerca di europei. E così, sul treno Santiago-Santa Clara, ti capita di finire a suonare e a cantare con altre persone nelle carrozze di epoca sovietica, mentre la signora seduta a tuo fianco ti offre una coscia di pollo e altre vivande magicamente apparse dal nulla. 

 

 

La musica è elemento fondamentale di tutte le interazioni cubane, e smonta sul nascere il primo luogo comune di ogni straniero: arrivi lì pensando di ascoltare Compay Segundo ad ogni angolo, e invece ti ritrovi il reggaeton. Ma è proprio grazie alla musica che riuscimmo a fare amicizia a Trinidad, cittadina coloniale ricolma di turisti, dove fummo accolti nella cerchia dei musicisti locali, che finirono con l’insegnarci un po’ di cose, musicali e non solo. Ad esempio introducendoci all’arte di trascorrere i pomeriggi bevendo mojitos e daiquirís, con l’accento sull’ultima i. E che ovviamente ‘approfittarono’ di noi nell’ormai classica logica dell’espediente, iniziandoci a coinvolgere nelle serate a suonare nei locali, dove però alla fine noi suonavamo tutto il tempo chitarra e cajón mentre loro stavano fuori a fumare, rientrando solo, naturalmente, per incassare il compenso. Geni. Ad ogni modo, poco male, perché attraverso i loro agganci finii col fare lunghe chiacchierate con un barista che qui si definirebbe abusivo (lì è economia informale, che è un’altra cosa), delle quali mi porto dietro, ancora oggi, i segreti per un mojito perfetto: zucchero bianco e non grezzo, succo di limone verde e non pezzetti di lime, una punta di miele per non grattare in gola. E il rum deve essere leggermente invecchiato, né bianco né scuro, tre anni è il migliore. Sant’uomo, quel barista. 

Nell’epoca del turismo di massa e del turismo ‘alternativo’ di massa, lo spazio lasciato alla scoperta ed all’esplorazione è sempre più ristretto. E a Cuba questo lo si respira tantissimo. Ecco perché non mi era possibile iniziare a parlare di quest’isola incredibile se non concentrandomi sull’aspetto umano, sull’interazione, sul modo di porsi, sui luoghi da frequentare. Affidandosi un po’ al caso e un po’ all’istinto, magari prendendo un caffè alla finestra di quella vecchia casa con una scritta su un pezzo di cartone, invece che nel bar consigliato da Lonely Planet. 

È la Cuba degli scambi e degli incontri con le persone che ti si rivela nelle sue infinite contraddizioni. E nella rassegnazione, che alla fine acquisisci, a non voler più neanche provare a risolverle: te le lasci alle spalle, e con esse anche la propaganda, non solo quella castrista, ma anche quella ben più sottile e violenta del mondo occidentale. Cuba, semplice, nella sua infinita complessità.

 

 

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