Trattando di “ultimi”, il pensiero corre immediatamente al detto evangelico secondo cui a costoro toccherebbe in sorte di essere “primi” nel Regno dei Cieli. Già dai tempi del Vangelo gli ultimi costituivano una fascia ben definita della società, quella comprendente individui a vario titolo investiti da meccanismi di emarginazione, stereotipizzazione e stigmatizzazione, da pregiudizi e razzismi etc., e in quanto tali versanti in una perenne condizione di subalternità.

L’ultimo era così, oltre che una condizione, una categoria entro cui sussumere persone ininfluenti, non in grado di svolgere ruoli attivi nei processi storico-sociali, privi come essi erano del possesso dei più elementari strumenti atti a farli meglio “stare al mondo”.

Successivamente, nel corso di una sofferta elaborazione che si è sostanziata di tutti gli eventi impastati di sofferenza, lotta, emancipazione e riscatto che hanno segnato la storia degli ultimi cinquemila anni, dalla schiavitù del popolo ebraico sotto il giogo del Faraone a Spartacus, dai servi della gleba al proletariato di Marx che non ha nulla da perdere se non le proprie catene, dai “dannati della terra” di Fanon alle disperate ciurme che affollano con precari barconi il Mediterraneo, si è scoperto che la categoria degli ultimi non è una categoria metastorica e metafisica, quasi che la condizione subalterna sia già assegnata in natura secondo imperscrutabili disegni del fato o di una divinità crudele, ma sia sempre l’esito di una prassi di egemonia e di dominio esercitata sulle fasce o sugli individui più deboli di una data società, oggi su larghissime fasce di popolazione dell’intero pianeta che vedono le proprie esistenze alla deriva a motivo di meccanismi e dinamiche di globalizzazione ormai sfuggiti a ogni controllo che non sia quello – fallimentare – dei pochi cinici che governano il mondo, convinti di trarre vantaggi da un’ulteriore divaricazione della forbice tra “primi” e “ultimi”. “Gli ultimi” costituiscono dunque tutto ciò che si è scelto di relegare alla periferia fisica o simbolica della società: i subalterni, o meglio coloro che non hanno un ruolo riconosciuto nella società (che non sia quello della coscienza che a volte rimorde) e ai quali pertanto non tocca diritto alcuno di parola. I silenti, le cui vite trascorrono senza lasciare traccia del loro passaggio su questa terra, come il povero Lazzaro del Vangelo.

In passato erano i portatori delle culture “etniche”, gli altri, quelli da colonizzare, poi furono gli abitanti delle zone meno sviluppate del Mezzogiorno d’Italia, le terre che Ernesto de Martino individuava come “le Indie di quaggiù”, in seguito – via via – gli inquilini dei manicomi e dei luoghi di contenzione, gli “spazi concentrazionari” nei quali si rinchiudevano coloro la cui esistenza era in qualche modo di disturbo per la società (cosiddetta) civile, e ancora, nell’Italia del boom i citoyens delle baraccopoli delle grandi città, e qui a Messina dei rioni degradati in cui la promiscuità era di norma, e adesso nel nostro presente gli occupanti dei campi nomadi che ospitano e isolano migranti e disperati di ogni sorta, e le persone un tempo “normali” e oggi ridotte in povertà da un sistema cieco che obbedisce solo alle logiche della finanza.

È indubbio che l’esclusione di alcuni soggetti e di alcuni luoghi contribuisca a determinare l’identità culturale di una nazione. Nel nostro paese l’esclusione sociale non è sempre stata oggetto di una prassi politica determinata, come oggi ci viene esemplarmente mostrato a opera della Lega Nord nel caso dei migranti, ma è sempre stata comunque contrassegnata da un discorso pubblico e da una cultura diffusa che hanno costruito e rappresentato luoghi “marginali” e persone “ultime”. Una riflessione sui meccanismi di esclusione e sugli stigmi che hanno determinato la creazione di tale categoria potrebbe raccontarci molto sui processi di formazione della nostra società, con un ribaltamento di prospettive nella percezione delle nostre identità, vere o presunte.

Questa considerazione può altrettanto pertinentemente essere rivolta ai paradigmi con cui l’Occidente tutto è venuto costruendo le proprie regole, i propri “diritti”, i propri spartiacque tra chi “ha diritto” a essere qualcuno o a poter fare qualcosa, e chi di tale “diritto” è sprovvisto, perché privato di esso.

Noi, avvezzi come siamo a crogiolarci entro la placenta del nostro benessere, incontriamo difficoltà a comprendere che la fine del mondo non è la fine del mondo, ma è sempre la fine di un mondo. Se tale consapevolezza ci fosse, non assisteremmo alle tante cazzate apocalittiche espresse sui social a proposito dei flussi migratori. I nostri antenati, di fronte a un evento di grande bizzarrìa o stranezza, usavano dire “non c’è cchiù munnu!”. Noi, che abbiamo per fortuna perso la loro ingenuità e sappiamo che quel mondo non era l’unico mondo, non possiamo più permetterci di pensarla allo stesso modo. Non ne abbiamo più alcun diritto. E non lo abbiamo in quanto questo “nuovo mondo”, che tanto sgomenta molti individui delle nostre società, hanno iniziato a costruirlo i nostri progenitori.

Da che mondo è mondo (è il caso di dire) abbiamo esplorato, colonizzato, sottomesso e dominato altre plaghe del pianeta. Abbiamo in tal modo esportato i nostri costumi e i nostri modelli culturali, compresa la nostra “democrazia”. Qualcuno pensa ancora che abbiamo portato solo la nostra civiltà. La verità è che abbiamo scassato i cabbasìsi, per dirla alla Camilleri, a molte pacifiche popolazioni che vivevano tranquille, risolvendo – pacificamente o guerrescamente – i problemi con i loro rispettivi confinanti. Tutti ormai sappiamo che non eravamo mossi da un istinto filantropico nell’andare a “civilizzare” popoli diversi dai nostri. Ci siamo andati spinti dall’avidità verso le loro risorse, i loro giacimenti, le loro terre. Altrimenti non li avremmo ridotti in schiavitù, trucidati, gasati, deportati etc. Non avremmo, una volta distaccatici da loro, venduto armi e messo a capo dei loro stati dei tiranni corrotti o dei fantocci manovrati a distanza.

Adesso qualcuno pensa che sia giusto e legittimo (“per preservare le nostre radici cristiane”) lasciare affogare nel Mediterraneo coloro ai quali noi stessi (i nostri padri, i nostri nonni) hanno sottratto ogni risorsa nei loro paesi, coloro che fuggono da guerre preparate a tavolino o fomentate o armate da “civilizzatori” europei o americani.

Pochi giorni fa un pugile suonato come l’ex cavaliere di Arcore tuonava che bisogna rispedirli a casa, questi straccioni, e aiutarli casomai a casa loro.

La verità è che lo scandalo dei migranti è forse l’ultima opportunità che l’Occidente ha, in questo terzo millennio, di recuperare le proprie radici. Radici certamente anche cristiane ma che hanno assorbito nel crogiolo della storia tutte le istanze di democrazia e libertà, dall’Illuminismo alle lotte operaie, principî che adesso alcuni pretenderebbero di cancellare ritornando alla cupa barbarie dell’homo homini lupus.

Che poi, a ben vedere, per costoro non tutti i migranti sono della stessa qualità. Se ai miserabili dannati della terra che sbarcano sui nostri porti sostituiamo nipotine di Mubarak o transessuali brasiliani state pur certi che la soglia di tolleranza nei loro confronti si innalza di botto, e si spalancano loro golosamente gli studi televisivi.

 

(In copertina un dettaglio del quadro “Umanità”, di Giovanni Iudice)

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