Da diverso tempo avevo in mente di iniziare a condividere questo spazio virtuale. Perché se, come spesso ho avuto modo di dire, il viaggio per me è intrinsecamente condivisione, tale non può che essere anche il ricordo e il racconto dei viaggi stessi, e delle storie ed esperienze che li accompagnano. E, mentre pensavo a come inaugurare questa nuova fase della rubrica, mi è venuta in mente l’ultima serata prima del lockdown, trascorsa in compagnia di due persone, parlando di tante cose. Anche di viaggi.

Le persone, amici ai quali mi legano tanta stima e affetto, oltre che la condivisione di esperienze politiche e istituzionali, sono Mariateresa Zagone e Pier Paolo Zampieri; conosciuti, almeno di nome, da tante e tanti tra voi e che credo incarnino due approcci complementari rispetto al modo di vedere il mondo e a quello di vivere il viaggio.

E così, in quella serata di inizio marzo, tra una cosa e l’altra ci siamo ritrovati a parlare di Praga.

Da subito, mentre li ascoltavo, mi ha colpito un piccolo particolare: che, nonostante io a Praga ci fossi stato ben due volte, non ricordavo quasi nulla della città. E forse è proprio questo ad avere alimentato, allora, la mia curiosità verso le loro storie e i loro racconti e, qualche settimana più tardi, il mio desiderio di coinvolgerli nella scrittura collettiva (termine al quale siamo molto legati tutti e tre) di questo racconto, attraverso messaggi, chiamate e note audio su Whatsapp. Insomma, una scrittura collettiva da quarantena.

 

 

Come nel più classico dei cliché, abbiamo cominciato dall’argomento forse più scontato, quando si parla di Praga: la birra.

Mariateresa: “Per forza! La birra, più che la bevanda nazionale, è il cuore della vita sociale, e puoi berla ovunque, a Praga 1 come a Praga 10, ai piedi degli scuri campanili del Týn, come fra i parallelepipedi grigi della periferia di stampo sovietico. Praga è chiassosa e i boemi amano il dialogo, meglio se davanti ad un boccale di pivo rigorosamente pieno di densa schiuma.”

In effetti, questo lo ricordo anche io di Praga, per quanto non sia un grande appassionato di birra – preferisco di gran lunga il vino o qualche distillato. Ma ricordo la dimensione sociale assunta dalla birra, che va oltre gli stereotipi da turista di massa, e che è come una sorta di introduzione, di punto di partenza, in una qualsiasi interazione.

Pier Paolo: “Definire con lo stesso nome la birra che bevi lì e quella che bevi in Italia è come chiamare Panda e Ferrari con lo stesso nome. Io non sono un ‘birroso’, ma la birra ceca è straordinaria e appoggiata al gulasch non la bevi. Te l’assorbi.”

Appena sento parlare di gulasch mi torna in mente un altro viaggio nell’Europa dell’est – Budapest – e da lì, in maniera del tutto naturale, altri ancora, la Polonia soprattutto, con Varsavia e Cracovia, viste in due periodi diversi della mia vita ma nelle quali ho ritrovato sensazioni simili a quelle che mi evocano questi racconti su Praga, i praghesi e la birra. Rituali e socialità. In Polonia, ovviamente, parliamo di vodka, non di birra, però ci ritrovo dei collegamenti molto vividi. E pian piano mi tornano in mente anche alcuni dei miei momenti praghesi, soprattutto quelli della seconda volta – qualche anno fa, con il mio caro amico Alessio, una tre giorni che ruotava attorno al concerto di Bob Dylan – delle chiacchierate provando qualche birra locale… ma soprattutto mi inizia a venire il desiderio di tornare, per capire meglio.

 

 

Mariateresa: “Dovresti, in effetti. Non sai cosa ti perdi. E quando ci torni, inizia dalla birreria U Fleku, nella città vecchia. E’ un luogo pazzesco, dove hanno un solo tipo di birra: una lager scura. Cosa tipica di questa, come di altre birrerie, è che è antichissima. Questa è del 1499, per la precisione. Si entra in un cortile interno, ci sono stanze con tavolate enormi e condividi la tavola con altri. E tra una birra e l’altra viene fuori di tutto. E poi magari, all’improvviso, entrano a rifocillarsi alcuni artisti di strada e ti immergi come d’incanto in una bolla di musica tradizionale.”

Pier Paolo: “Tra l’altro, dopo un paio di birre, la sera, riesci finalmente ad allentare le catene della ragione. A me è successo, a Praga, di fare quel che si dovrebbe fare quando si viaggia, e cioè abbandonare il lato razionale, diurno, con cui si guarda il mondo. Partiamo da un approccio un po’ alla Umberto Eco: una parte importante dell’opera d’arte è il lettore. E una parte importante dei luoghi che si visitano è l’osservatore. Per entrare bene nei posti in cui si va, ci vuole un poco di alterazione, così non è più la mia ragione a guardare le architetture della città: dopo un paio di birre è il mio inconscio a parlare con l’inconscio della città. Se poi hai la fortuna di agganciarti a un paio di chiacchiere con qualcuno del luogo o con un altro viaggiatore, avviene il miracolo – che poi è il motivo per cui uno viaggia – e cioè, semplicemente, allargare la tua prospettiva sul mondo.”

Riflessioni che mi invitano a nozze. Sul senso del viaggio e sull’approccio del viaggiatore. Anche se, come sempre, Pier lo dice (e lo pensa, mi vien da dire) meglio di me. In parte, credo che il mio problema nei ricordi mancanti di Praga stia proprio qui: non sono mai riuscito a superare questa barriera. Facendo il paragone con altre esperienze, noto come poco importi quanto tempo abbia trascorso in un posto o quante volte ci sia tornato: senza quel salto finale, i ricordi scivolano via. E a Praga, come in altre grandi destinazioni turistiche, penso che mi sia accaduto – la seconda volta più della prima, quando ero in gita scolastica e quindi, insomma, il luogo in cui si va conta poco o nulla – di non riuscire a riemergere, di essere rimasto asfissiato da una bolla turistica, riassunta nell’immagine del Ponte Carlo e degli scorci da cartolina della Moldava.

Pier Paolo: “Lo capisco bene. Io, in maniera un po’ più brutale, a Praga ho sentito la fine dei viaggi. La città non era come me l’aspettavo, mi aspettavo dedali di stradine medievali, mi aspettavo Kafka. Mi è sembrata molto impupata, molto cartolina. Questo mi ha innescato un sacco di riflessioni, e la più importante credo che abbia a che vedere con la transizione da est a occidente. Con l’avvento dei grandi magazzini, con le scale mobili e le grandi vetrate, i consumi. I locali storici trasformati in un set per turista o adattati per abbracciare in maniera un po’ troppo entusiastica l’arrivo dell’occidente. E’ il processo drammatico in cui tutte le città si assomigliano sempre di più: giri ma alla fin fine trovi sempre la stessa cosa. Alla fine, forse è sbagliato quell’approccio, cercare chissà che cosa, l’altro da sé, il diverso.”

 

 

 

Sono aspetti che mi sono molto cari e che credo siano emersi qua e là anche nei miei racconti di viaggio precedenti. In fondo, siamo arrivati al cortocircuito, per cui si sta massificando la ricerca dell’autentico (o, meglio, di un presunto autentico, dell’autentico per come lo immaginiamo noi). Ma penso ancora che esistano alternative a questa scelta dicotomica tra la città-bomboniera da un lato e la ricerca un po’ colonialista di un autentico che tale non è. Ma lascerò queste riflessioni ad altra sede, perché adesso vorrei tornare per un momento a Praga e alle sue chiavi di lettura. Oltre la birra…

Mariateresa: “…c’è la Praga che potremmo definire ‘intellettuale’. Si dice che negli anni ’20, viaggiando in treno nella Mitteleuropa, quando si incontrava un passeggero con un libro aperto, intento a leggere, gli si domandava se fosse praghese. Erano appena trascorsi gli anni della secessione, a Praga si parlava boemo e tedesco e si scriveva, si scriveva molto, in boemo e in tedesco. E Mucha riempiva di fiori e di affiches le facciate dei palazzi di piazza Venceslao. E, seguendo il flusso dell’acqua della Moldava che si getterà nell’Elba di lì a poco, nel cuore e nell’anima tutta risuonavano le note di Smetana. Sono tutti aspetti che ritrovi nella Praga di oggi. Una Praga intellettuale, secessionista, vivace, elegante ed aggraziata. Ma è anche la Praga dell’affascinante Golem, dei tentativi alchemici di Rodolfo II, del quartiere ebraico, dei tragici disegni dei bambini boemi destinati a Terezin esposti nella sinagoga, del muro di John Lennon nel quartiere delle ambasciate, ai piedi del castello. L’unico luogo in cui, durante il regime, gli oppositori di sotterfugio facevano disegni o lasciavano frasi e poesie. E poi il bambinello di cera che si dice essere miracoloso, arrivato con una sovrana spagnola, e per il quale ogni paese del mondo cuce un abito prezioso legato alla propria tradizione visiva e decorativa. A Praga, se riesci a entrarci dentro, c’è davvero di tutto”.

Pier Paolo: “E c’è anche l’orologio astronomico, nel palazzo del municipio. Da anni continuo a sentire che a Messina c’è quello più grande del mondo, e sono finalmente riuscito a vedere quello di Praga, di certo il più famoso. E detto sinceramente, non c’è proprio gara.”

Insomma, finita la quarantena, forse saprò cosa fare. Dopo la gita scolastica e il concerto di Bob Dylan, magari sarà la volta buona non tanto per andare, ancora una volta, a Praga, quanto per provare ad essere davvero lì. Prima, però, mi prenderò una birra, rigorosamente ceca, con Mariateresa e Pier Paolo.