Da molto tempo si assiste ad una progressiva sottrazione dell’identità simbolica delle città. Esse stanno perdendo via via le loro caratterizzazioni specifiche, conquistate da aliene espressioni architettoniche. Questo fenomeno dipende molto dalla dilagante diffusione di certe architetture che si caratterizzano, ormai ovunque, per i loro lessici omologati e omologanti.  Linguaggi dall’assoluta povertà espressiva, semantiche prive di note specifiche e di riferimenti gerarchici, di canoni, di senso. Espressione di un pernicioso processo di globalizzazione che sta influenzando sempre più l’architettura.

Sono le architetture a specchio. Organismi senza alcun portato simbolico, involucri che non trasmettono mai l’idea della loro ruolo, che non anticipano la loro destinazione, il loro uso, che non esternano in modo esplicito la funzione che in essi si svolge: una scuola, un ospedale, ufficio postale, sono, tra loro, indistinguibili. In queste opere si confondono i segni, non si percepisce la loro identità, non si afferra la loro funzione, non s’intuisce il loro scopo sociale. Esse negano la loro appartenenza a qualsiasi categoria riconducibile a un codice comune di significati e significanti appartenenti alle città in cui si insediano. Non hanno cifre che possono essere compresi o comprensibili, nel senso latino del termine “comprehendĕre”: prendere con sé assorbire, abbracciare, racchiudere, adottare, prima ancora che capire.

La loro architettura è amorfa, anonima, uniforme, insipida, senza identità, senza carattere, inteso proprio senza caratteristiche, cioè senza connotati riconoscibili. Senza quei particolari architettonici, repertori stilistici, che ci aiutano a distinguere gli stili architettonici (Il rosone dello stile romanico; l’arco rampante dello stile gotico; il colpo di frustra dello stile liberty; le superfici schiette, i pilotis o le finestre a nastro del razionalismo, etc.), elementi che ci fanno leggere l’architettura e i suoi simboli come quei connotati (capelli ricci e pelle scura dei popoli africani, capelli biondi e occhi azzurri dei popoli nordici, bassa statura e occhi a mandorla dei popoli asiatici, etc.) che ci aiutano a distinguere l’appartenenza degli uomini alle varie etnie.

Le architetture delle pareti vetrate sono architetture che non comunicano con l’esterno. Sono edifici impermeabili, espulsivi, riflettenti che non assorbono il Genius loci e che non dialogano con il contesto che li accoglie. Le loro facciate riflettono l’ambiente circostante restando neutrali, quasi a voler prendere le distanze con quanto li circonda, come quelli che non vogliono avere a che fare con il dirimpettaio e lo manifestano attivando dispositivi di distinzione e di allontanamento. Sono come quel nuovo vicino di casa che quando ci incontra non ci saluta e altero tira dritto manifestando chiaramente l’intenzione di non voler avere rapporti umani. Lui non ha ereditato l’appartamento dai genitori, non ha vissuto il cortile quando era bambino, lui è nuovo! Lui è un nuovo acquirente, non viene mai alle riunioni di condominio, semmai scrive direttamente all’amministratore. Lui formalizza i rapporti di vicinato e rivendica solo i suoi diritti citando con proprietà leguleia la norma di legge che glieli riconosce.

Queste architetture sono sempre nocive per i luoghi in cui s’insediano. Se l’ambiente è degradato amplificano il degrado, se l’ambiente è bello si vestono malamente della sua bellezza deformandola in modo grottesco sulle loro superfici riflettenti a seconda della luce e dell’ora della giornata, praticamente la scimmiottano e la ridicolizzano. Hanno la dirompente forza di rendere irreali realtà urbane secolari, basti pensare a quel che sarebbe un palazzo a specchi davanti al Colosseo: la via dei Fori Imperiali diverrebbe una marmellata di riflessi di frammenti scomposti, un blob psichedelico di realtà e antichità. È questione di tempo. Sono come quelle persone che indossano gli occhiali da sole per nascondere gli occhi, l’identità, l’anima. Impedendo a chiunque d’indagare la loro espressività, giacché gli occhiali a specchio riflettono chi guarda. Sono edifici mimetici, architetture che si nascondono, riflettendo pienamente la categoria di pensiero che li ha concepiti: una categoria basata sulla frode (quella tipica dell’aziendalismo, della commercializzazione, del marketing, delle banche, etc.). Comunque sono espressione di una categoria che ha qualcosa da nascondere. Fanno tornare alla mente Franco Battiato che cantava: C’è chi si mette gli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero.

Sono architetture che dissimulano, che non raccontano la verità. Sono le architetture della post-verità. Sono la plasticizzazione di quella categoria di pensiero che non vede la verità come un valore ma come uno strumento flessibile da adattare a seconda dello scopo. Dentro i loro involucri ci si può trovare, una caserma militare come un placido condominio, gli uffici di un ministero come una fabbrica di mattonelle. Nulla al loro esterno accenna a queste specificità. Omologano uffici, residenze, palazzi istituzionali, tribunali, fabbriche, stazioni, aeroporti, scuole, etc.. Sono strutture edilizie non specializzate, i loro interni sono flessibili adattabili ad ogni cambio di destinazione. Una flessibilità funzionale alla massimizzazione della rendita fondiaria. Sono la lampante metafora della flessibilità sociale, della flessibilità del lavoro, che impone il neoliberismo.

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