Nella puntata precedente si è mostrato come la passione collettiva per la performance politica del sindaco Cateno De Luca implichi una serie di rimozioni psicologiche di massa. Deresponsabilizzazione, coazione alla conformità, complessi collettivi di arretratezza legati alla storia meridionale, proiezioni immaginarie relative al concetto di “modernità”, nostalgia di una struttura economica tramontata e la messa a fuoco di interessi e prospettive materiali spesso solo immaginarie, sono le contraddittorie motivazioni politiche e culturali che spingono differenti blocchi sociali locali a chiudere gli occhi dinanzi alle incongruenze racchiuse nella “narrazione di sé” offerta dal sindaco di Messina. Ciò, per l’appunto, che costituisce l’oggetto del rimosso.

Coerentemente con tendenze di ordine globale, solo meno volgari e provinciali nelle loro manifestazioni discorsive, questa struttura di sentimento che origina per una parte significativa dall’incertezza e dalla deprivazione relativa o assoluta, si traduce in un’aspirazione all’“ordine”. Ossia nella visione dell’ordine come premessa necessaria della “modernità”.

Come si è già osservato molte volte nel corso di questa analisi a puntate, la comunione sentimentale  tra il sindaco e i suoi sostenitori ricalca il modello ideologico-comunicativo “populista” generale (quello che da Trump arriva a Salvini e agli epigoni di provincia), che consiste nella legittimazione ed elezione a offerta politica di ciò che tutti sanno o sentono a proposito di temi e soggetti che si ritengono connessi alla cosa pubblica . 

In tal modo ciò che in un normale regime democratico “moderno” – ovvero passato – emerso non senza difficoltà e continue regressioni dall’età dei lumi e della ragione, andrebbe confinato nella cloaca delle credenze, e a cui giammai un politico responsabile dovrebbe prestare attenzione se non per screditarle, nel regime post-moderno contemporaneo può diventare tema politico e criterio per la regolazione e l’azione. 

È infatti nell’assecondamento di credenze e proiezioni e, dunque, nel rifiuto della distinzione tra soggetto di ragione (posto in alto) e soggetto popolare (posto in basso) che si cela il consenso ed è attraverso questa pratica discorsiva che si produce quel simulacro dell’uguaglianza che sta alla base dei sentimento e delle rivendicazioni neo-giacobine diffuse tra la cittadinanza. 

Una cittadinanza, comunque, che è ormai sostanzialmente depoliticizzata e impotente. E che, pertanto, si accontenta di soddisfazioni meramente simboliche. Che, cioè, delega alla politica una funzione che è soprattutto “satisfattoria”, nell’assenza di aspettative sostanziali di trasformazione ritenute ormai impossibili (ciò per l’appunto che ho chiamato impotenza).

De Luca si insinua pertanto in questo processo generale e legittima visioni e bisogni sospesi anch’essi tra il globale e il locale. La lotta alla movida è per esempio una istanza generale, rinvenibile quasi ovunque la vita si impossessi della notte in una cornice demografica che vede complessivamente prevalere gli elettori anziani. La guerra all’inciviltà è invece un bisogno e un progetto locale, per quanto sia proprio anche di molti paesi in via di sviluppo (per esempio appare molto pertinente e compatibile col caso messinese un recente saggio dell’indo-americana Ananya Roy dedicato alla nuova Calcutta e la costruzione morale di una “città di gentlemen”). 

Il sindaco legittima dunque le aspirazioni di modernità che lo precedono, che lo hanno plasmato e che sono da sempre presenti nelle narrazioni locali. Un progetto che, come tutte le “orientalizzazioni” (un termine presto a prestito da Edward Said che così sintetizza i modi occidentali di narrare e inventare l’“Oriente”, ossia tutto quello appare come arretrato), fa piazza pulita delle ragioni strutturali e storiche dietro le differenze e le particolarità. E che così facendo depoliticizza la questione sociale, trasformandola in un fatto di civiltà e di gerarchie tra soggetti urbani collocati in stadi differenti del proprio sviluppo individuale e di classe.

La politica  diventa in tal modo governo morale, come conferma lo stesso sindaco quando, a commento di un video che immortala un ragazzo di periferia che conferisce un sacco di spazzatura dall’alto di un balcone, accompagnando peraltro il gesto con degli insulti rivolti al primo cittadino, afferma: “Queste sono le scene che ti fanno riflettere se vale la pena continuare in una azione di civilizzazione anche morale che richiede veramente tanta pazienza e perseveranza”.           

Una dichiarazione apparente di impoliticità moralista e moralizzatrice che, negli stessi giorni, acquisisce ancora più senso allorché giudica “utili ma non prioritari” i centri sociali di quartiere e i corsi di alfabetizzazione per i rom (che però sono italiani e con bassa scolarizzazione. E in quanto tali del tutto indistinguibili dal giovane di cui sopra). 

In nome del risparmio e del debito il sindaco afferma, per l’ennesima volta dal giorno del suo insediamento, che le ragioni reali che stanno dietro una “antropologia” – la descolarizzazione e la povertà, tra le altre – sono costi “non prioritari” che, come tali, vanno tagliati.

Cos’altro resta da fare in questa cornice primitiva e persino darwiniana – frutto di un thatcherismo scolastico appreso in giovine età e da cui non si è evidentemente mai distaccato, che intende la politica come ragioneria – se non reprimere? Ossia tagliare facendo anche cassa. Cosa resta dunque da fare se non trasformare la repressione in esibizione pubblica, in “obiettivo” di lavoro per i vigili (ossia in numeri minimi di infrazioni da scoprire e sanzionare) e in verbale permanente delle azioni intraprese da diffondere a giorni fissi, forte probabilmente di una consapevolezza istintiva che la memoria sociale della ghigliottina e della gogna è ancora tutta lì e che la “giustizia” può essere, per l’appunto, spettacolo per delle masse arrabbiate? (Spectacle, non a caso, è nei documenti storici inglesi uno dei sinonimi di gogna).

Ma sono i bersagli della repressione a dire molto dell’immaginario morale di chi la pratica. Locali notturni, tiratardi e lavoratrici del sesso diventano il centro di quello che è un progetto spirituale. Un progetto che ha come sogno ultimo la città dormiente. O, più precisamente, la città del tempo libero “morale”: quel divertimento che si svolge entro le mura domestiche, tra coniugi, coppie amiche e tanto cibo.

A farci sospettare ciò è proprio il cibo, che nasconde sempre una ideologia, una visione e delle relazioni (anche di tipo politico). E non a caso – si sa – De Luca è amante del buon mangiare, delle rosticcerie e dei ristoranti, che non mancano di recargli in dono vivande sin dentro il palazzo comunale. In cambio il sindaco ne menziona il marchio, partecipa alle inaugurazioni e fa loro visite di cortesia, aiutandoli a pubblicizzarne i locali, intrecciando relazioni e prendendosi cura di un blocco sociale esteso e rilevante. Ciò che ai fini del nostro ragionamento appare interessante, però, è che questi specifici esercenti lo aiutano a trasformare lo spazio del Comune in un locale domestico, familiare e soprattutto esemplare, in cui si consumano ruspanti cene tra amici, oltre che colleghi, da diffondere orgogliosamente sui canali social.

È per l’appunto in quei frequenti ritratti di uno spazio pubblico e politico reso domestico che si rintraccia il principale pilastro dell’ideologia deluchiana: quello che ruota attorno alla casa, alla famiglia e alla familiarità. Uno spazio morale, ancora prima che fisico, in cui si ci può lasciare andare a pose scomposte, all’appetito esibito senza filtri e alla messa in scena di sé priva dell’ingessatura formale imposta dai ruoli pubblici.  

Se queste ritratti intimi del cibo e della commensalità consumati in uno spazio pubblico reso privato, costantemente proiettati nel foro virtuale, vengono posti in connessione con la passione  per le regole e la maestosità delle rappresentazioni fotografiche e testuali di ogni fine settimana – quelle che hanno al proprio centro incursioni notturne a base di locali controllati e chiusi, auto sequestrate e rimosse, giovani scapestrati ripresi nell’atto di bere alcolici nelle strade e, infine, reggiseni, preservativi e giocattoli sessuali appartenenti a prostitute – appare arduo, al di là delle semplicistiche visioni sul rapporto tra infrazione e pena, non notare le connessioni e le congruenze ideologiche tra tali passioni.  

È così che al fondo si può forse intravedere l’idea della città non come di un aggregato plurale che vive di giorno così come di notte, esprimendo la gamma dei bisogni, delle condizioni e delle pratiche sociali di un epoca; ma di uno spazio da desertificare in nome della quiete, della familiarità e di un divertimento che escluda il “vizio” dalle opzioni disponibili.

In questa cornice fare piazza pulita del “vizio” significa anche salvare. Salvare gli uomini e le donne – specie quelle “di malaffare” – da se stessi. Salvare, cioè, la città.

(continua)  

Qui le altre puntate: 1, 2, 3, 4, 5

 

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