Quando ci si chiede perché si molla la propria città per andare altrove in cerca di prospettive più rosee, si cercano sempre risposte in ragioni sociali, economiche e a volte anche culturali. La verità, però, è molto più prosaica e “terra-terra”, e non si limita a “non c’è lavoro” (o ce n’è troppo poco): è che anche se poi si trova un impiego, non viene pagatoMettendo un attimo da parte il lavoro in nero (dove almeno poi i soldi in tasca arrivano ogni fine settimana), uno dei fenomeni ultimamente più diffusi e per cui anche il sindacalista più diplomatico ad un certo punto perde le staffe è quello di contrattualizzare un giovane dipendente senza poi pagarlo, regalando, a spese dello sciocco, false illusioni. In pratica oggi, nel 2022, è da sfatare il mito “contratto = stipendio sicuro”. E un altro mito da sfatare è quello che i giovani di oggi non hanno voglia di lavorare (forse la voglia gliela fanno passare): in linea di massima, oggi un ventenne lavora il triplo rispetto a cinquant’anni fa, e se fortunato, viene pagato un terzo. Benvenuti sulla Terra.

C’è chi ha in testa il solo pensiero di assumere regolarmente, con un corrispettivo sotto contratto, già premeditando di non rispettare l’accordo firmato, discorso a cui si associa un’aggravante quando ad essere truffati con promesse e contratti ritenuti “cartastraccia” sono ragazzi che potenzialmente hanno ancora altri 40 o 50 anni davanti a sé per potersi convertire al nichilismo. E specialmente se questi giovani, durante il periodo lavorativo, dimostrano la professionalità e la serietà di un chirurgo in sala operatoria, spinti dal loro fresco e ingenuo entusiasmo di entrare finalmente nel mondo dei grandi e avere diritto di parola.

Senza troppi giri di parole (o almeno pensi tu, perché poi si rivelano proprio giri di parole), ti promettono la luna con discorsi motivazionali. Semplici. Diretti: «Vogliamo fare le cose per bene», «Stiamo crescendo e ti vogliamo fra i nostri», «Scommetti su di noi e noi scommetteremo su di te». Slogan che sembrano usciti più da una campagna di reclutamento americana durante la guerra in Vietnam che da chi sta cercando dei “dipendenti” di cui fidarsi e a cui affidare delle mansioni.

Piccola parentesi: non è un fattore culturale o territoriale. È più che altro fisiologo. È l’uomo, nella sua forma più primitiva. Un essere che sotto certi aspetti non si è mai evoluto, limitandosi solo a raffinare le sue tecniche per prevalere sull’altro: se l’uomo di Neanderthal uccideva per sopravvivere, l’homo sapiens sapiens “fotte” il suo prossimo. È così in Europa. In Italia. In Sicilia. E a maggior ragione a Messina, dove chiedere di ricevere in cambio la stessa correttezza e la stessa puntualità date diventa “supponenza” o “insolenza”. Una realtà che fa di tutto per far buttare sangue fino ad oltre i trent’anni (nella più felice delle esperienze) e in cui si definisce “presunzione” la richiesta di rispetto per il proprio lavoro. Per i propri sacrifici. Per il tempo dedicato a lavorare.

Si sgobba per un paio di mesi, tutto il tempo con la promessa che i soldi arriveranno. Poi a poco a poco gli occhi iniziano a schiudersi e allora si comincia ad infastidirsi. Non si lavora più con serenità e nelle condizioni ideali e la qualità del lavoro cala inevitabilmente. Però si va avanti, perché nonostante il conto sia ancora al verde, la speranza è l’ultima a morire (ma muore, prima o poi).

Lo step successivo è rammentare vagamente le parole della nonna («Senza soddi non si ni canta missa»:«Senza soldi non se ne canta messa») e poi si raggiunge il limite, ponendosi la fatidica domanda se questi soldi arriveranno mai, provando a dare una risposta: forse viaggiano su una nave container dall’Australia.

Adesso è il momento di mandare tutto affanculo, e solitamente questo coincide con l’attimo in cui si perde la speranza. Che a sua volta coincide con l’istante in cui una vocina nella testa dice «Ben svegliato coglione».

Sia chiaro, non si tratta di essere venali (sì, c’è bisogno di fare questa precisazione purtroppo): la retribuzione dà un senso all’impegno. Ripaga anche moralmente le fatiche. È ciò che rende palpabile la soddisfazione di aver portato un lavoro a termine. In più permette di “campare” (ma questi sono dettagli. Alla fine i giovani vivono ancora con i genitori, che spese hanno?).

Attualmente è possibile solo individuare qualche tecnica, quasi tutte con l’obiettivo di “temporeggiare”. Fra le mie strategie preferite c’è l’antica arte dello “scaricabarile”, corsia referenziale per sgattaiolare fuori dalle situazioni più complicate e che si sa già di non poter risolvere (passando inosservati). Affinché questa funzioni a dovere, però, c’è bisogno di un sistema di deleghe all’interno dell’organigramma che farebbe impazzire anche Robert Anthony (il tizio che ha teorizzato il modello gerarchico di comportamento organizzativo aziendale piramidale).

Altra tattica fenomenale, però, è anche quando tutta la macchina burocratica (e soprattutto, guarda caso, economica) entra in blackout per un solo individuo perché questo «sta male», «ha problemi di famiglia», «è entrato in ferie», «gli è cresciuto l’unghia del piede» e altre scuse che è meglio evitare di elencare prima di sfociare nel ridicolo. Se qualcuno, infatti, si stesse chiedendo se per un uomo il mondo possa smettere di girare, la risposta è no. Esiste un vicepresidente degli Stati Uniti d’America pronto a sostituire l’uomo più importante del mondo se incapace di svolgere le sue mansioni. Esiste un vicepremier, un vicesindaco e un vice per qualsiasi altro ruolo che venga in mente.

Forse è inutile aprire e dilungarsi sul discorso “tempo”, in quanto concetto di più facile comprensione per una scimmia che per un essere umano. Però non si può non farne menzione, anche solo limitandosi a sottolineare come sia il fattore lavorativo più sottovalutato. La giornata inizia con una serie di scelte appiccicate al soffitto nel momento in cui apriamo gli occhi, e tutte chiedono come spendere i secondi, i minuti e i giri di orologio delle prossime 18 ore (nella speranza che il Padre Eterno conceda otto ore di riposo). Il tempo sprecato (perché se non frutta alcun guadagno, è perso) non viene restituito.

Si parla di svogliatezza dei giovani. Di ragazzi costantemente incollati alla PlayStation. Di una generazione troppo social e poco produttiva. Di assenza di ambizioni. Di apatia. Di ultra quarantenni “mammoni” che ancora vivono in casa dei genitori. E ne parlano tutti i giorni quelle generazioni che prima ancora di lasciargli uscire la testa fuori dal guscio studia il modo di ingannare i ragazzini, mandando un mondo a catafascio. Quei quarantenni e cinquantenni che hanno i soldi ma pensano a non spenderli nemmeno per pagare gente che mandi avanti i loro interessi: sempre di più a qualsiasi costo, anche se questo prevede di sfruttare l’ingenuità, la buona volontà e l’entusiasmo di quei ventenni che invece un posto nel mondo stanno lottando per conquistarselo.

A tutto ciò si aggiunge un altro boccone amaro, moralmente forse il più pesante da digerire. Da una società “civile” che non ritiene tutto ciò una notizia non ci si può aspettare nulla: il problema è se anche i giovani ci passano sopra in silenzio, abbassando la testa e accettando l’ennesimo calcio in culo. È questa la sconfitta più grande. La fine di una società basata sul lavoro e sulla dignità di ogni essere umano. D’altronde, anche il termine stesso “dignità” si sente sempre meno in giro, specie se affiliato a “lavoro”.

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