Nella seconda puntata di questa esplorazione degli immaginari “pubblici” – ossia degli atteggiamenti manifestati dai lettori attraverso i propri commenti ai post di pagine Facebook o ad articoli apparsi sui quotidiani – espressi da chi sostiene De Luca e da chi gli si oppone, abbiamo visto come le posizioni in materia di “cultura” svelino dei posizionamenti fondamentali.

La cultura – che è un oggetto complesso e dalle plurime definizioni – nei discorsi ufficiali locali viene intesa come un prodotto “identitario”, che va immesso nel mercato del turismo e, perciò, “brandizzato”. Ossia trasformato in un marchio che garantisca riconoscibilità e susciti all’esterno della città un certo tipo di “desiderio” (quello, per l’appunto, di visitare e conoscere Messina). Ma anche i cittadini, naturalmente, sono interessati da questa facile operazione culturale: essi devono infatti riscoprire la “messinesità” e l’orgoglio di appartenere a una città e a una cultura. 

I contenuti di questa operazione, inoltre, appaiono dichiaratamente nostalgici, improntanti come sono su “antichi mestieri”, zampogne  e cibo (si veda la seconda puntata).   

Ciò che nella precedente puntata si deduceva da questi tratti ed altri ancora, è che tanto il Sindaco quanto chi lo sostiene sembrano prediligere rappresentazioni rassicuranti da opporre alla complessità perturbante del presente. Un presente fatto di temi, economie e trasformazioni con cui, probabilmente, non si è certi di sapersi relazionare. 

Un bisogno di rassicurazione, inoltre, che fa piazza pulita non solo della complessità esterna, ma anche di quella interna, costituita da quella parte minoritaria di popolazione che si oppone proprio all’egemonia culturale di De Luca e dei suoi. E che aspira a ben altre proiezioni nel mercato della cultura, fondate su temi, linguaggi e immaginari differenti. 

Tralasciando per ora il fatto che queste differenze sul tema della “modernità” nascondono generalmente posizioni di classe e opportunità, l’argomento al centro dell’episodio di oggi è che De Luca – malgrado le impressioni dei suoi oppositori siano di segno decisamente contrario – è proprio uno che rassicura. 

Non c’è bisogno di spendere molte parole sulla centralità della rassicurazione, e della gestione dei sentimenti connessi, nell’attività politica. E, in particolare, nelle attività politiche di stampo populista. In quelle, cioè, in cui il rapporto tra leader e masse è totalmente incentrato sull’affidarsi delle seconde al primo. Lì ove, per di più, affidarsi significa accantonare le facoltà critiche. Oppure predisporsi a un atteggiamento per cui la critica, anche quando affiori (si pensi alle polemiche sul numero Whatsapp per i delatori che dessero informazioni ai vigili urbani su assenteisti e contravventori vari), non infici il giudizio complessivo sulla persona del leader. 

E si noti che non ho nominato l’operato, ma la persona: è la persona infatti che sta al centro dell’affidarsi. Ossia l’insieme delle caratteristiche morali del leader e, soprattutto, il significato affettivo che egli riveste per il seguace (o, forse, dato il contesto altamente mediatizzato, il “follower”).

Ma incominciamo dal punto più debole e apparentemente meno “morale”: quello relativo al corpo del leader. È vero, non si reperiscono commenti che affrontino direttamente questo tema, se non per quelli che esprimono preoccupazioni sulle condizioni fisiche dell’amato sindaco, una bonaria ironia sulla quantità del cibo che ingurgita nelle sue visite pubblicitarie a ristoranti e rosticcerie oppure i riferimenti alla sua complessiva buona forma. Tuttavia se ne trovano moltissimi che stigmatizzano le apparenze del suo vecchio antagonista Renato Accorinti. 

Per quanto debole la pista, una riflessione sul rassicurazionismo deluchiano può forse partire dal corpo. Rassicurando a nostra volta il lettore che non stiamo concedendo proprio nulla allo stile leggero dei periodici di costume o di gossip, possiamo immaginare che il taglio di capelli demodé portati all’indietro, con evidente tracce di gel o brillantina, la foggia seriosa dei vestiti (con l’eccezione di certe mise estive mai sopra le righe, incentrati su bermuda neri e camicia bianca), gli occhialini di forma classica e l’aria di un giovane nato vecchio, non debbano giocare un ruolo esattamente secondario nelle percezioni di molti suoi sostenitori.

Già solo per questo aspetto, il Sindaco riconnette probabilmente un certo tipo di pubblico con un immaginario di autorevolezza strutturatosi negli anni della cosiddetta Prima Repubblica. Cateno De Luca, del resto, è soprattutto un affare per persone non più giovanissime, che, malgrado le innovazioni di costume degli ultimi anni (per esempio, le felpe di Salvini. Ma anche il torso nudo dello stesso Cateno in un video estivo o, peggio, al Parlamento Regionale), non possono non avere memorie radicate di un certo modo democristiano di vestire il ruolo pubblico. De Luca, così, riconnette il suo pubblico con la nostalgia canaglia di un’epoca che la memoria meridionale, intimamente, ricorda in termini diversi da quelli di Tangentopoli (si veda un mio vecchio libro, “Quota zero”, per esempi di questo strano e ambivalente rapporto dei messinesi con la DC).

Ma al contrario dei vecchi politici democristiani da cui è andato a scuola da adolescente, il linguaggio di De Luca non è evasivo né paludato. Al contrario la sua è una lingua roboante, strabordante di invettive personali e di astio. Oltre che quella del “popolo”, la sua è la lingua dell’autorità. La lingua di chi può parlare senza temere di essere smentito, né di vedersi opporre niente. È una lingua che implica una verticalità. Ed è lui, naturalmente, a occupare la posizione superiore.

È in questo suo farsi padrone attraverso la lingua che c’è l’affidarsi del suo popolo. Con un’analogia potremmo dire che – come si diceva occorresse fare con i cani riottosi – il sindaco ricorda spesso a quel quadrupede che corrisponde al nome di popolo che è lui che comanda.  A ben vedere, in questo perverso meccanismo che ricorda anche le pagine di Reich sulla personalità autoritaria e la libido della sottomissione, la cultura c’entra ancora. 

Nella precedente puntata, infatti, abbiamo visto come De Luca segni, tra le altre cose, la presa della città da parte del rurale (“Messina è un paese”, le zampogne etc.). E nel meccanismo del padrone che abbiamo appena delineato vi sono chiari elementi di “inurbanità”. Ossia di relazioni e interazioni che ruotano anch’esse attorno al problema del condurre. Del condurre un cane o un asino, per esempio. E il conflitto tra chi lo sostiene e chi lo oppone, sta proprio qui. Nella felicità con cui ci si consegna al richiamo del potere del pastore, oppure nell’istintivo sdegno che accompagna il richiamo di un fischio a due dita seguito magari da un impropero. 

Ma sarebbe ingiusto esaurire il discorso qui. De Luca, infatti, rassicura anche perché invoca la competenza. Questo, anzi, è il suo profilo più “urbano” e contemporaneo: quello del tecnocrate. “De Luca il sindaco lo sa fare” è il noto slogan che richiama per l’appunto quell’idea di saper fare che, dal punto di vista comunicativo-propagandistico, il nostro riprende probabilmente da Silvio Berlusconi.  Sciorinare cifre, esibire approfondita conoscenza degli atti e dei procedimenti, accusare gli altri di incompetenza e malafede è esattamente quel meccanismo linguistico che marca la differenza tra lui come esperto e gli altri (gli inetti). In questo richiamo alla tecnica e, ancora una volta, alla distanza e onniscenza amministrativa che lo separa dagli altri, De Luca si ammanta insieme di esoterismo e carisma. Cateno De Luca è, insomma, un fatto religioso. E ai fatti religiosi, si sa, ci si può consegnare solo per fede. Affidarsi, per l’appunto. O ritrarsi sdegnati, come fanno altri.

Qui le puntate uno e due. 

 

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