MESSINA. Riceviamo e pubblichiamo il contributo inviato da una lettrice su un post di Facebook del sindaco Cateno De Luca di qualche giorno fa, in cui il sindaco si domandava come creare posti di lavoro a Messina. Domenica Farinella è ricercatrice in Sociologia economica presso il Dipartimento di Scienze Politiche e giuridiche. È autrice, tra l’altro, di Mezzogiorno alla finestra e di The Endless Reconstruction, dedicati alla questione meridionale e alla storia economica del sud e di Messina.

 

Da un’afosa spiaggia in un sabato agostano il sindaco condivide con la città le sue riflessioni su “come si creano posti di lavoro a Messina”. Una annosa domanda, dato che il mercato del lavoro locale, almeno dalla fine dell’Ottocento, non si è mai caratterizzato per una grande vivacità o per l’indipendenza dai trasferimenti pubblici. Nel video il Sindaco osserva che non è più pensabile immaginare che sia il settore pubblico a dare lavoro e occorre quindi attrarre gli investimenti e gli investitori (si presume privati e dall’esterno). Ma perché mai, continua, un privato dovrebbe investire in una città che si trova ormai da decenni stabilmente agli ultimi posti nella classifica relativa alla qualità della vita e alla vivibilità?

Tale permanenza nei gradini più bassi, che si palesa appunto con una insufficienza dei servizi pubblici (acqua, rifiuti, connettività, strade, trasporto locale, ecc.),  per il Sindaco è preoccupante non tanto per lo svantaggio sociale che implica (per esempio per coloro che devono razionare giornalmente l’acqua) ma perché, indirettamente, produce uno svantaggio economico. Ovvero un disincentivo a investire.

Ciò che colpisce, inoltre, è che nella visione del primo cittadino questo sarebbe il motivo per cui non si creano posti di lavoro. E per giustificare questa teoria De Luca fa riferimento al deprezzamento degli immobili che, appunto, deriverebbe dalla scellerata posizione di Messina nella classifica nazionale: chi mai acquisterebbe una casa in una città dove non funziona niente, dove i servizi essenziali sono costantemente negati? A partire da qui, inoltre, il ragionamento si amplia: poiché i servizi che si valutano in questa classifica sono quelli pubblici e locali, è necessario continuare quel percorso di rinnovamento della pubblica amministrazione, con la rottura di quelle prassi di “nullafaccendismo” che affliggerebbero tutti i dipendenti comunali, troppo impegnati a concepire il lavoro pubblico come personale “garanzia di un posto a vita”, piuttosto che come manifestazione di un’etica e di una motivazione al servizio protesa a garantire il compimento di specifiche missioni istituzionali.

Nella ricostruzione del Sindaco questa “anomalia” avrebbe inoltre contagiato gli stessi cittadini messinesi che, ormai totalmente privi di senso identitario e dell’appartenenza, oltre che di amore per il luogo in cui vivono, sono diventati i primi nemici della città, come dimostrato dall’incuria con cui sporcano i luoghi pubblici, l’individualismo estremo con cui sfidano le istituzioni e la spudorata incuranza delle regole, siano queste le norme tacite di buona educazione e vivere civile o le leggi formali e statuite. In tal senso il Sindaco con i suoi blitz e le sue sfuriate ora bonarie ora “incazzate” (che attestano il suo coinvolgimento in prima persona e il suo essere “vero”, del popolo e per il popolo, con formule già ampiamente sperimentate dal populismo nazionale) rappresenta il pater familias tradizionale che si arroga il diritto di una pedagogia del bastone e della carota.

Si potrebbe osservare a questo punto la pedagogia tradizionale del bastone e della carota ha da tempo lasciato il passo a pratiche basate sulla costruzione di responsabilità “dal basso”. Ma a Messina la stagione accorintiana – ci risponderebbe De Luca – ha mostrato i limiti di tali ideologie “buoniste”. E quindi ben venga un nuovo paternalismo in salsa social, sulla scia dell’idea che la gogna attraverso social network sia l’unico messaggio pedagogico che il messinese medio sia disposto ad accogliere e possa decifrare chiaramente.

Detto questo andiamo al punto: dopo più di un anno di governo, al di là di suggestioni estemporanee e di monologhi su Facebook, urge spiegare quale sia la strategia di sviluppo che si propone per la città, chiarendo dettagliatamente come le azioni intraprese dalla Giunta abbiano un senso economico e si inseriscano in una strategia programmatica di lungo periodo, che si sostanzia in una chiara visione della città nella geopolitica regionale e sovraregionale. Insomma, dove stiamo andando e qual è il senso delle cose? Queste sono le domande cui dovrebbe rispondere il Sindaco e farlo seriamente, ovvero nelle sedi istituzionali preposte.

Nell’ottica di una sociologia ed economia del territorio, infatti, non basta dire en passant, in un monologo su Facebook, che si potrebbe fare una strategia “mare e monti” (che detta così ricorda gli spaghetti più che una strategia di sviluppo!) oppure che “a Messina ci sono chilometri di coste!” e che “il pilone ha la stessa valenza della Torre Eiffel”. E dopo? Che cosa significano queste frasi in termini pragmatici e di strategia per la città? In questa prospettiva va benissimo, per esempio, ripristinare le fontane, ripulire la spiaggia o montare una doccia pubblica. Ma come cittadina vorrei anche capire se quelle azioni siano espressione di una strategia complessiva di lungo periodo. La memoria storica della città ci dice che il ruolo simbolico e materiale delle numerose fontane che in centro e nei villaggi era espressione del diritto all’acqua potabile gratuita, oltre che un punto di incontro e un luogo atto a produrre “comunità”. L’azione di ripristino delle fontane per l’acqua potabile (non soltanto di quelle decorative) si inserisce forse in una strategia di recupero e valorizzazione di questa memoria storica nel quadro di un approccio innovativo che mette assieme turismo, beni comuni e, magari, green economy?

O ancora, mettere una doccia nella spiaggia di Contesse, in un tratto di costa ormai da anni dichiarato non balneabile, è il primo passo di una strategia di riqualificazione della costa cittadina che restituisca realmente alla città la sua spiaggia e il suo mare, liberandola dalle fogne a cielo aperto e dagli scarichi abusivi che non ne permettono una reale valorizzazione sociale ed economica? Se si – se non sono dunque mere azioni pubblicitarie a basso costo – come ed in che tempi ritiene di voler realizzare questi passaggi strategici? Coinvolgendo chi? E mettendo in campo quali ulteriori azioni?

Continuo con altri esempi. Non basta che si faccia una ordinanza “decoro” per la frenesia di allinearsi al protagonismo dei sindaci sceriffo, perché come le numerose ricerche dimostrano, spostare i poveri dal centro storico è solo abbellimento cosmetico. Un’ operazione di facciata che non risolve nulla e, al contrario, accentua le sacche di esclusione e marginalità delle aree periferiche; ossia di quei luoghi ove i nuovi espulsi dal centro verosimilmente si sposteranno, rendendo per loro più facile l’oblio.

Messina è una città dove da sempre vi è una carenza strutturale di servizi sociali ed assistenziali pubblici che negli ultimi anni la crisi delle finanze locali ha reso ancora più acuta. Tale carenza non riesce a essere tamponata da un tessuto cooperativo e associazionistico del terzo settore schiacciato dall’assenza di risorse (che spesso porta ad una forte dipendenza dalla politica per il reperimento di queste). Ciò si traduce in carenza di strutture e di mezzi, ricorso a lavoro sotto-pagato e al volontariato. L’offerta privata di servizi sociali, d’altro canto, è anch’essa di bassa qualità e scarsamente differenziata, realizzata all’interno di mercati con elevati gradi di irregolarità e rivolta a quel ceto medio che può appunto pagare per un posto in una struttura per anziani o, alternativamente, per una badante, un asilo nido privato o una babysitter a ore.

La città, insomma, è segregata lungo linee di classe. Per questo non serve criminalizzare i poveri – che, in senso relativo o assoluto, sono i più – ma occorre affrontare concretamente, con piglio pragmatico e muniti di dati, il problema della strutturale carenza di servizi di assistenza ai più deboli in città, siano essi i migranti, gli anziani soli, i senza tetto, i precari, le famiglie numerose e così via. La questione “baracche” può essere un buon esempio di quanto si vuole sostenere. Come sappiamo, il terremoto di Messina funge da acceleratore a dinamiche di marginalizzazione economica e industriale che erano, del resto, già in atto al momento della tragedia. Dal terremoto in poi la città di Messina perde così la sua vocazione produttivistica per specializzarsi nell’economia della ricostruzione. L’edilizia diventa così la principale attività del settore industriale e la rendita immobiliare diventa il settore di investimento più vantaggioso.

Lo scambio clientelare si innestava così su diversi livelli, coinvolgendo strati sociali diversificati: dalla garanzia di un posto nell’edilizia per i sottoproletari, all’ottenimento di una casa popolare, alla possibilità di ottenere un appalto o di velocizzare una concessione oppure facilitare un cambio di destinazione d’uso o una qualsiasi pratica per il ceto imprenditoriale e le classi medie.

All’interno di questo meccanismo di economia speculativa basata sul cemento, le aree geograficamente marginali della città venivano inglobate, diventandone così le aree periferiche. Sorgevano inoltre abnormi quartieri popolari, in cui una distesa infinita di case popolari costruite in periodi differenti si accavallano, si intersecano, si ibridano con i fondi e le loro baracche, con nuove baracche e con case singole pre-esistenti o autocostruite, con costruzioni precarie entro i cortili dei condomini, con palazzoni cooperativi per il ceto medio-basso, con scheletri di edifici, ecomostri incompiuti a testimoniare il fallimento del costruttore di turno.

Di fronte a questo scempio urbanistico che è la città dei “quartieri” di cui nessuno parla, eliminare qualche baracca qua e là non può essere che un palliativo. Serve al contrario una strategia seria di riqualificazione, che riattivi e valorizzi le esperienze che, dal basso e nonostante tutto, i ragazzi e le comunità provano a organizzare dentro i quartieri e i villaggi, evitando di demonizzarle qualora abbiano tratti irregolari e disturbanti. Rispetto a queste problematiche, dunque, quali sono le posizioni del Sindaco? Qual è la sua visione per questa parte della città?

Nel suo monologo De Luca sottolineava come il cattivo indice di vivibilità porti gli immobili cittadini a deprezzarsi di giorno in giorno. Mi viene da rispondere che questo non è un problema  per i cittadini che vivono in una casa IACP di Villaggio Aldisio, di Santa Lucia o di Viale Giostra, dove gli immobili privati sono già deprezzati. Qui, come osservato in precedenza, la questione è riportare la normalità dei servizi e delle infrastrutture di base, di spazi verdi e luoghi per la collettività. Altro che investimenti in senso finanziario!

Occorre inoltre sottolineare che la città si trovava nelle stesse (ultime) posizioni della classifica di vivibilità anche negli anni del boom edilizio e della bolla immobiliare speculativa che, nei primi anni 2000, ha portato alla ulteriore cementificazione di vaste nuovi porzioni di territorio, dalla zona Sud (Minissale, SS114)  sino a Sant’Agata, allorché si costruivano ecomostri di lusso con vista sullo stretto che contrastano in modo stridente con quei borghi marinari che un amministratore oculato avrebbe dovuto tutelare come patrimonio della città.

In quegli anni, come nel resto d’Italia il valore degli immobili aumentava, con prezzi al metro quadro che nel 2002 erano a Messina di ben 1550 euro. Valori medi, dunque, più alti di città limitrofe come Catania e Palermo (https://www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/mosaico8_02_03.pdf ). Ciò, inoltre, avveniva mentre si consumava la lenta ma progressiva desertificazione del tessuto economico della città, con le cabine regie dei principali servizi (ferrovie, elettricità, telefoni, smistamento postale) che venivano chiuse, ridimensionate e decentrate altrove. Messina perdeva anche la sua centralità commerciale, fagocitata da Catania e dalla vicina Milazzo.

Ma poco importava allora perché l’edilizia tirava. Garantiva soldi e lavoro. A nessuno interessava all’epoca soffermarsi sulla bugia speculativa che stava dietro questo boom assolutamente fittizio, basato su stime che inspiegabilmente prevedevano una crescita della popolazione assolutamente irrealistica, fino a 290.000 abitanti, nonostante già i censimenti Istat del 1991 e del 2001 avessero evidenziato un consistente calo dei residenti (che oggi è una vera e propria emorragia).

In questo senso si vorrebbero risposte concrete: è possibile pensare per la città un modello di sviluppo ecosostenibile, orientato alla riqualificazione e recupero di quanto esistente, in un’ottica di risparmio energetico e di valorizzazione ambientale? O dovremo continuare a immaginare lo sviluppo della città nei termini di un’edilizia della cementificazione senza limiti, perché tanto crea lavoro e fa girare l’economia, barattando in modo ormai irreversibile quel che resta del nostro patrimonio ambientale? Sono questi gli “investimenti privati” di cui abbiamo bisogno?

Oppure abbiamo bisogno dei meccanismi di esclusione sociale generati da airbnb e dalla turistificazione. Un modello insostenibile che determina l’espulsione dai centri storici degli abitanti e che viene oggi ampiamente contestata nelle città che l’hanno sperimentata per prima (Barcellona e Venezia sono gli esempi più noti (“Il turismo è un problema”, è ciò che la gente dice lì oggi). Un modello, dunque, già vecchio e insostenibile a cui una platea poco informata e molto sensibile a certe istanze di “modernità” continua ad anelare.

Nell’economia globale bisogna competere sembra ricordarci De Luca. Ma il punto non è tanto competere, quanto come competere! Via bassa o via alta? Svendiamo il territorio, come hanno fatto le scellerate politiche urbanistiche? Oppure svendiamo le persone, come accade con le assenti politiche per il lavoro o con le tristi ordinanze per il decoro tese alla turistificazione e all’espulsione?

Leggendo tra le righe degli interventi social del Sindaco, nel ribadire la necessità di attrarre gli investimenti privati fino alle critiche al malfunzionamento dei servizi che sembrano presagire una necessità inderogabile di “curarli” affidandoli in gestione ai privati, sembra delinearsi una visione privatistica della città. Una strategia che tutto sommato non è nuova, dacché è ben noto che la città è sempre stata in mano ai privati e a pochi gruppi familiari. Una strategia che in questo caso sembra strizzare l’occhiolino alle grandi imprese private, nazionali o multinazionali, che hanno trovano nella gestione dei servizi essenziali un nuovo business.

Percorrere questa strada sarebbe deleterio. Dagli anni novanta in poi la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità oppure l’introduzione di meccanismi di mercato e di concorrenza ha determinato infatti una diminuzione dei servizi (si pensi ai trasporti ferroviari dalle isole) e un innalzamento dei costi.

Eccetto che per i talebani del neoliberismo, infatti, una cattiva regolazione del settore pubblico non si risolve trasformando il pubblico in privato (che al contrario ha finito per caratterizzarsi per una cattiva de-regolazione, come avvenuto in Italia), ma lavorando concretamente sull’assetto organizzativo e sulle sue inefficienze, coinvolgendo e motivando quel personale che deve materialmente attuare il cambiamento. Infatti, perlomeno dal punto di vista della sociologia dell’organizzazione, anziché criminalizzarli, sarebbe probabilmente più fruttuoso coinvolgere i dipendenti comunali, rendendoli partecipi delle sfide e dei progetti in atto. Disinnescando in tal modo quelle guerriglia e quei sabotaggi che la pubblica amministrazione sa combattere benissimo a tutto svantaggio della classe politica.

Infine un ultimo punto. Tempo fa mi trovavo a Baradili, il paese più piccolo della Sardegna che, con i suoi 87 abitanti, sembra destinato all’estinzione. L’obiettivo era chiedere alla popolazione locale quali servizi e che tipo di welfare si aspettassero per una zona rurale come quella. Mi colpì che la preoccupazione più grande degli abitanti fosse invece come attrarre i turisti. Quali servizi, cioè, fosse possibile immaginare per rendere più “attrattivo” il territorio per chi viene da fuori, mentre la domanda principale della ricerca era “quali sono i servizi che sono fondamentali per chi VIVE quei territori”.

Bene, ritengo che questo sia un grande problema di molta della narrazione economica in salsa di globalizzazione neo-liberista. Per cercare con il binocolo gli investitori perdiamo di vista le persone che abitano i territori.  Una strategia per la città deve partire da chi la città la vive ogni giorno e vuole restarci e/o ritornarci. E non da fantomatici investitori.

Ai cittadini bisogna guardare, ai cittadini bisogna dare speranza e fiducia.  Ciò significa in primo luogo perseguire strategie della fiducia, e non della sfiducia o della minaccia! La comunità, infatti, non si costruisce escludendo, marginalizzando, rimproverando, criminalizzando, ma attraverso la costruzione di percorsi consapevoli e condivisi. Il resto è autoritarismo. Buono per i consensi, ma non per l’efficienza.

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Felice
Felice
20 Agosto 2019 14:38

Bellissima analisi. Lucida. A tratti spietata forse, ma centra perfettamente una lunga serie di punti fondsmentali e dolorosissimi di questa assurda città. Del tutto condivisibile.
Brava. Bravissima

Francesco Alleruzzo
Francesco Alleruzzo
21 Agosto 2019 20:32
Reply to  Felice

Potrei tranquillamente dire che mi ha tolto le parole di bocca, ma non oso minimamente paragonare la mia disamina, sui cronici problemi della nostra città, a quella della dott.ssa Farinella alla quale vanno i miei complimenti per l’esposizione e un plauso per aver centrato la lesione culturale in cui viviamo. Pertanto non posso far altro che condividerne il pensiero sperando che venga condiviso.