Chi l’ha detto che a Messina non succede niente? Nell’ultimo scorcio di anno ha avuto luogo un evento in cui con lodevole lungimiranza la Caritas Diocesana ha scelto di dedicare l’annuale Convegno ai Quarant’anni della Legge 190, meglio conosciuta come Legge Basaglia.

Nell’incontro tenutosi il 29 dicembre presso l’Auditorium Fasola si sono così avvicendate riflessioni e testimonianze su un’iniziativa legislativa che ha posto fine, a partire dal 1978, a situazioni esistenziali intollerabili per un Paese civile.

I moralisti hanno a loro tempo strepitato scandalizzati che “i matti erano usciti dal manicomio”. In effetti, ad essere dimessi da quei tragici luoghi di contenzione erano persone disperate cui la società si rifiutava di riconoscere la dignità propria di ogni essere umano.

È stata una preziosa occasione per riflettere sui guasti arrecati alla nostra cultura da una “cultura dello scarto”, che considera scarto ogni forma di diversità, da quelli che la società considera pazzi ai poveri, ai migranti, agli omosessuali, a quei “diversi” che molti ritengono mettere in discussione con la loro diversità la propria – presunta – normalità.

Per Luigi Pirandello tre sono le corde d’orologio che vibrano nella testa dei siciliani: “la seria, la civile, la pazza, e quest’ultima, chiarisce Leonardo Sciascia, si accompagna alla categoria della “sicilitudine“, una condizione dell’uomo siciliano contrassegnata da un perenne sentimento di insicurezza. La follia siciliana risiederebbe pertanto, secondo quest’ultimo scrittore, in una presenza labile sempre in procinto di entrare in crisi “di fronte al rischio di non poterci essere in nessuna storia possibile, come avrebbe detto Ernesto de Martino. Quale che sia la verità di tale assunto, è indubbio che la segregazione dei diversi ha costituito per ogni società totalitaria la maniera più comoda di riporre sotto un ipocrita tappeto di perbenistico “ordine” la polvere delle proprie incapacità a costituirsi come società di uomini liberi.

In linea di principio, una visione antropologica moderna lontana dalle tentazioni etnocentriche non può che sforzarsi di studiare, analizzare e interpretare in modo nuovo i problemi della malattia mentale, consapevole della necessità di strumenti interpretativi differenziati, rispettosi delle diverse culture all’interno delle quali il folle è venuto costruendo la propria diversità. Parafrasando il Karl Marx dell’Ideologia Tedesca potremmo infatti dire che “i quadri nosologici della classe dominante sono in ogni epoca i quadri nosologici dominanti”, e questo appare ormai dimostrato dopo gli studi apparsi nella seconda metà del XX secolo, tra questi l’opera di Michel Foucault, in cui viene delineata l’evoluzione dello status del folle da figura riconosciuta e accettata nell’ordine sociale a figura esclusa, sulla quale adottare strategie di reclusione.

Sotto tale profilo, i folli, gli irregolari di una data società producono sempre una certa “messa in causa del sistema nel quale essi sono nati e cresciuti (Claude Lévi-Strauss).

Esaminando nella Sicilia tradizionale le realtà contrassegnate dalla presenza di forme di follia, potremmo operare una prima distinzione tra follia pubblica, estrovertita e follia privata, introvertita. Alla prima viene fornito un orizzonte comunitario, attraverso cui il gruppo sociale elabora – nei tempi forti della festa – meccanismi di gestione controllata della follia e della trasgressione per ottenere la reintegrazione nella normalità nei giorni del tempo ordinario.

La follia privata appartiene invece a vicende intime e individuali, derivanti da una difficoltà di chi ne è affetto a superare un determinato contenuto critico dell’esistenza. Georg Wilhelm Friedrich Hegel annotava puntualmente, nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: […] il soggetto, quantunque elevatosi alla coscienza intellettiva, è ancora suscettibile di malattia, e cioè, può restare fermo in una particolarità del suo sentimento di sé, la quale egli non può elaborare come idealità e sorpassare […]. Ciò è la follia”.

Va inoltre rilevato come anche i rituali di espulsione del male di più marcata valenza terapeutica, dei quali gli studi di Elsa Guggino ci hanno consegnato delle tipologie esemplari, rivelino una sostanziale omogeneità tra chi è affetto da patologia della psiche e chi è deputato alla sua cura, partecipando entrambi dei medesimi orizzonti ideologici e simbolici. Il sapere terapeutico viene qui esercitato senza scarti esistenziali, non vantando potere o privilegio ma utilizzando codici culturali condivisi. Queste forme oggi tuttavia appaiono ormai poco più che dei cascami folklorici, dato che nel corso del XX secolo, com’è noto, si è registrata la progressiva marginalizzazione e medicalizzazione dei disturbi mentali attraverso l’impiego di categorie nosologiche culte applicate in modo meccanico a patologie culturalmente condizionate, non riconducibili a quelle già note e codificate.

Si può concludere che la cultura tradizionale in Sicilia si èincaricata di riplasmare le categorie della follia sopra richiamate organizzandole secondo un’assunzione comunitaria dello stato e della condizione di folle.

Fabrizio De Andrè, molti anni fa, ci ricordava genialmente che Dietro ogni scemo c’è un villaggio. E quell’altro poeta di Francesco De Gregori ci illustrava con splendidi versi la sorte di coloro che stanno “tutta la vita dentro la notte chiusi a chiave”.

 

 

Il problema, nel nostro povero panorama esistenziale, è che ormai non ci sono più villaggi disposti a farsi carico dei propri scemi. Non esistono più società civili al cui interno la diversità trova spazio, se è vero – come è vero – che il potere si costruisce sempre più spesso giocando sulla diffidenza e sulla paura, sulla strategia di creare sempre di nuovo scarti tra le persone anziché forme di dialogo e d’integrazione. Il caso Salvini è a tal proposito esemplare.

Contestatori naturali delle logiche etiche, estetiche, interrelazionali, linguistiche in vigore presso il contesto sociale in cui essi vivono, i folli hanno così subìto nel corso dell’ultimo secolo pratiche spietate di segregazione, di silenzio, di annullamento cinico delle loro stesse esistenze.

Claude Lévi-Strauss ci ricorda che il pensiero selvaggio non è il pensiero dei selvaggi ma il pensiero allo stato selvaggio, non ancora strutturato in categorie rigide, come tale elastico, effervescente, pronto a creare cortocircuiti, a farsi permeare dalle determinazioni naturali, ad assecondarne i ritmi: un pensiero allo statu nascenti.

Il Convegno Caritas ha messo in luce per un verso il profondo spirito antievangelico di chi ritiene che tutte le diversità debbano essere compresse e represse, per altro verso la creatività e la ricchezza che tali diversità viceversa apportano a una società accogliente, a una società pienamente degna di questo nome e non preda di paure indotte e prigioniera dei suoi egoismi, delle sue fantasmatiche proiezioni.

The dark side of the moon rimane pertanto una categoria sempre presente nella cultura siciliana, non tanto nella prospettiva della corda pazza di cui parlava Sciascia, quanto piuttosto in quella di una vocazione a mettere in causa il sistema nel quale si è nati e cresciuti procedendo alla costruzione di universi utopici in grado di suggerire nuove forme di pacificazione dalle angosce della storia proponendo nuovi e più umani orizzonti.

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2 Commenti
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Domenica Giliberto
Domenica Giliberto
16 Gennaio 2019 15:10

Grazie dottor Tedesco per i suoi interventi cosí civici, civili, colti, finemente argomentati, di buon senso e di buon gusto. Li leggo sempre ad alta voce alla mia Lillá, che ogni giorno a quest’ora combatte contro le sue colichette. Funzionano, dopo qualche rumorino la cagnetta torna a dormicchiare leggera.

Sergio Todesco
Sergio Todesco
17 Gennaio 2019 0:17

Gentile signora, è per me di grande conforto che quanto scrivo riesca ad alleviare i problemi della sua bestiola.