MESSINA. Nella zona sud era operativa una costola del clan riconducibile a Giacomo Spartà (ininterrottamente detenuto dal 25 marzo 2003), capo dell’omonimo clan, egemone nel racket dell’usura e delle estorsioni in danno di commercianti ed avventori di sale scommesse, i cui proventi concorrevano ad alimentare la “cassa comune” della consorteria. È il quadro che emerge dall’operazione “Polena” che ha inflitto un duro colpo al clan Spartà.

I carabinieri hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Messina su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia peloritana, guidata dal Procuratore Maurizio De Lucia, a carico di 8 persone (7 dei quali ristretti in carcere e 1 sottoposto agli arresti domiciliari) ritenuti responsabili – a vario titolo – dei reati di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni e violazioni degli obblighi della sorveglianza speciale, tutti aggravati dal metodo mafioso. Le indagini avviate ad ottobre 2014 dai sostituti procuratori della Dda Liliana Todaro e Maria Pellegrino scaturiscono dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Daniele Santovito. Gli arrestati sono Angelo Bonsera, 53 anni, Antonio Caliò, 35 anni, Giuseppe Cambria 46 anni, Antonio Cambria Scimone, 50 anni, Tommaso Ferro, 41 anni, Lorenzo Guarnera, 57 anni, Raimondo Messina detto Saro 46 anni. Ai domiciliari Alfio Russo detto Massimo, 48 anni.

Gli investigatori hanno scoperto i rapporti tra Raimondo Messina e gli appartenenti alla famiglia Spartà. In una circostanza la moglie del boss, quando è cessata la semi libertà di Messina, si sarebbe recata con i propri figli a fargli visita a casa. Messina inoltre ha manifestato in più occasioni il proprio rispetto verso Antonio Spartàfratello del detenuto (sebbene non si siano registrati, nel corso delle indagini, rapporti telefonici), incontrandosi con lo stesso.

L’indagine ha quindi permesso di confermare l’esistenza di un sodalizio mafioso a Santa Lucia sopra Contesse. Al vertice del gruppo ci sarebbe Raimondo Messina, reggente del clan Spartà con Gaetano Nostro, entrambi in questo momento già detenuti per altra causa. L’attenzione investigativa si è inizialmente concentrata su Messina e su Maurizio Lucà, entrambi indicati quali uomini di fiducia di Giacomo Spartàdal collaboratore Daniele Santovito. Malgrado l’attività investigativa su Lucà sia stata interrotta dopo sole due settimane – perché arrestato nell’ambito dell’operazione Alexander”, del 9.12.2014 (in quanto ritenuto responsabile di alcuni episodi estorsivi) e indagato nell’operazione denominata “Copil”del 24.02.2015 (poiché ritenuto responsabile del reato di riduzione in schiavitù di un bambino romeno), ha consentito di censire i suoi rapporti con Antonio Cambria Scimone e, quindi, quelli di quest’ultimo con lo stesso Messina. Le indagini hanno anche concluso che Messina avrebbe gestito la cassa comune del gruppo, alla quale attingeva anche per il sostentamento dei detenuti e delle loro famiglie.

La consorteria mafiosa si è costantemente dimostrata capace di interferire e di condizionare l’attività di alcuni imprenditori messinesi, non solo imponendo assunzioni di personale indicato dai sodali, ma anche imponendo loro le scelte imprenditoriali. In particolare, è stato accertato nel corso dell’inchiesta come, al fine di eliminare del tutto la concorrenza al bar “il Veliero”, riconducibile a Saro Messina, un pasticcere sia stato obbligato ad interrompere la vendita di bibite e caffè all’interno alla propria pasticceria, adiacente al bar, poiché, a giudizio degli odierni indagati, sarebbe stato responsabile di un calo degli introiti. In un ulteriore episodio, un imprenditore attivo nel settore del commercio all’ingrosso di prodotti alimentari, è stato costretto con violenza e minaccia ad interrompere le forniture di carne e lavorati di macelleria ad alcuni ristoranti cittadini per favorire la nascente attività di macelleria di uno degli indagati.

Non mancava la consuetudine di imporre l’assunzione presso i loro esercizi commerciali, di parenti e conoscenti degli indagati, oltre che di impedirne il licenziamento.

Altro settore di interesse dell’associazione si è dimostrato essere quello delle estorsioni ai danni dei giocatori, frequentatori di alcune sale gioco cittadine controllate dalla stessa consorteria. È stato documentato, infatti, come in un caso alcuni degli odierni indagati abbiano costretto il titolare di una sala scommesse a cedere loro la proprietà, a causa delle difficoltà economiche, pretendendo anche il pagamento della somma di 5.000 euro, per una serie di giocate effettuate con denaro “a credito” delle società di scommesse (che lo stesso aveva effettuato quando era titolare dell’esercizio commerciale). Ma ben più incisivi sono risultate le modalità con le quali i giocatori sono stati costretti a pagare i debiti di gioco contratti con i gestori delle sale. In particolare, sono stati censiti numerosi episodi in cui il debitore dapprima è stato esplicitamente minacciato di violenza e ritorsioni fisiche (“ti spezzo le gambe”) e successivamente, quando la minaccia si rivelava infruttuosa, i sodali facevano esplicito riferimento alla propria fama criminale nonché alla loro appartenenza all’associazione mafiosa. In questo modo sarebbero riusciti, a recuperare tutti i crediti vantati (che variavano tra i 3.000 ed i 10.000 Euro). Al riguardo, appare significativa la vicenda che ha visto coinvolta una commerciante cittadina, frequentatrice di una delle sale giochi investigate che, a fronte di un debito contratto ad un tavolo da poker illegale, pari a circa 6.000 euro, è stata costretta dapprima a versare 10.000 euro in contanti, poi a consegnare un anello del valore stimato in 6.000 euro ed infine un orologio di una nota marca svizzera del valore di mercato pari a 4.000  euro

Nel corso dell’inchiesta è stata comprovato anche il ricorso all’usura in danno di una commerciante che versava in evidenti difficoltà economiche. In particolare la vittima, titolare di una nota gioielleria cittadina, per far fronte a piccoli debiti con i fornitori per un importo totale di 4.000 euro, ha dovuto consegnare nel breve volgere di soli sei mesi la somma di 8.500 euro, di cui 4.500 a titolo di interessi. Non contenti, alcuni degli odierni indagati hanno costretto l’imprenditrice a consegnare anche alcuni preziosi, per un controvalore commerciale complessivo di ulteriori 1.000 Euro. La stessa, incoraggiata dall’essere riuscita a far fronte alle pretese degli usurai, ricorreva agli stessi usurai anche in altre occasioni: in particolare in una circostanza, a fronte di un prestito iniziale di 2.000 euro, in sei mesi ha dovuto consegnare 4.500 euro mentre in un’ulteriore episodio ha richiesto un prestito di 5.500 euro restituendone, entro trenta giorni, 9.000.

 

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