Spaesamento è il senso di smarrimento e di estraneità provato da chi si trova in un luogo o in un ambiente nuovo e sconosciuto.

Lo spaesamento letterario più famoso è contenuto in una celebre pagina della Recherche:

“Un uomo che dorme tiene intorno a sé in cerchio il filo delle ore, gli ordini degli anni e dei mondi. Li consulta istintivamente svegliandosi e ci legge in un attimo il punto della terra ch’egli occupa, il tempo trascorso fino al suo risveglio; ma i loro giri possono confondersi, spezzarsi. Se, verso il mattino, dopo un po’ d’insonnia, lo coglie il sonno mentre sta leggendo, in una posizione troppo diversa da quella in cui dorme abitualmente, basta un suo braccio levato per fermare e fare indietreggiare il sole, e, nel primo attimo del risveglio non saprà più l’ora, penserà d’essersi appena coricato. Quando s’assopisca in una posa ancora più strana e divergente, per esempio dopo pranzo seduto in una poltrona, allora lo sconvolgimento sarà totale nei mondi tratti dalle loro orbite; la poltrona magica lo farà viaggiare a gran velocità nel tempo e nello spazio, e, nell’aprire le palpebre, egli crederà d’essersi coricato alcuni mesi innanzi in un altro paese”.

Lo spaesamento è dunque una condizione che ha a che fare con lo spazio e con il tempo. Nelle società tradizionali lo si fronteggiava attraverso iniziative volte a conferire senso e valorizzazione operando discreta nel continuum spazio-temporale.

Scrive ad esempio Mircea Eliade:

Vi è dunque uno spazio sacro, quindi con una sua “forza”, un suo preciso significato, e vi sono spazi non consacrati, quindi privi di struttura e di consistenza, in una parola: amorfi. E vi è di più: per l’uomo religioso questa non omogeneità dello spazio si identifica in una pratica contrapposizione tra lo spazio sacro, l’unica cosa reale, realmente esistente, e tutta la restante informe distesa che lo circonda”.

Tale contrapposizione, precisa Eliade, non è frutto di una “speculazione teorica” bensì di una esperienza religiosa elementare, anteriore a qualsiasi riflessione sul mondo”. La frattura si fa segno di una presenza trascendente il mondo che si innesta nel mondo stesso per conferirgli senso e orientamento:

La costituzione del mondo, prosegue Eliade, nasce dalla spaccatura effettuata nello spazio, attraverso la quale si scopre il “punto fisso”, l’asse centrale di ogni orientamento futuro. 

Nel momento in cui il sacro si manifesta attraverso una qualsiasi ierofania, non soltanto viene interrotta l’omogeneità dello spazio, ma avviene contemporaneamente la rivelazione di una realtà assoluta, in opposizione alla non-realtà dell’immensa distesa che la circonda. La manifestazione del sacro fonda ontologicamente il Mondo. Nella distesa omogenea ed infinita, senza punti di riferimento né possibilità alcuna di orientamento, la ierofania rivela un “punto fisso” assoluto, un “Centro”.

È emblematico un episodio raccontato da Ernesto de Martino: un vecchio pastore calabrese, portato in auto, non potendo più scorgere il campanile del suo paese, aveva cominciato a manifestare un’angoscia sempre maggiore, avendo perduto il punto di riferimento “del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Lo studioso conclude: “Certamente la presenza entra in rischio quando tocca il limite della sua patria esistenziale, quando perde ‘il campanile di Marcellinara’.” L’angoscia del vecchio pastore, il sentimento di “perdita della presenza” è, in qualche modo, la medesima angoscia di chi perde, o teme di perdere, i riferimenti a quei luoghi domestici dove sente di avere un senso. Quella che sembra essere messa a rischio è la propria identità in un contesto diventato irriconoscibile.

Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una «patria perduta»”.

(La Fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, 1977).

L’episodio calabrese mostra plasticamente come la perdita degli ancoraggi culturali (in senso antropologico) sottragga senso al mondo. Come il pastore non ritrovava più il suo campanile, così i migranti sentono di aver smarrito il loro spazio esistenziale, costruito sulla consuetudine quotidiana di scambi, di incontri in una situazione di comunanza e familiarità.

Questo tema è stato da sempre presente nelle fabulazioni che l’umanità ha prodotto nel corso delle sue giornate storiche. Basti pensare al tema del perdersi nelle fiabe, (Pollicino e l’orco, la Mamma Draga …..). È evidente che gli spaesamenti fiabeschi abbiano sempre adombrato concrete esperienze esistenziali

L’esperienza di spaesamento ai nostri giorni è in larga misura rappresentata dal viaggio forzato e il conseguente perdersi per le strade del mondo. Lo spaesamento da emigrazione.

Ernesto de Martino, già in anni lontani, individuava il tema dell’oltraggio delle memorie, laddove l’incontro etnografico non avvenga su basi paritetiche e non produca mutuo scambio tra culture.

Lo stesso etnologo, in uno studio esemplare, mise in luce come il pellegrinare degli aborigeni australiani, la cui cultura nomade esigeva il continuo addentrarsi in un territorio ostile e sconosciuto sotto la spinta delle varie necessità connesse alla ricerca di cibo, fosse punteggiato da riti consistenti nel ripetere simbolicamente il mito della creazione, indirizzati a riplasmare sempre di nuovo uno spazio rischioso e alieno trasformandolo in “patria; in pratica, una strategia di questa popolazione nomade consistente nella periodica rifondazione del proprio universo.

In particolare, presso il gruppo totemico Achilpa delle tribù Aranda assumeva un ruolo di primo piano il palo kauwa-auwa, il più sacro oggetto cerimoniale della tribù, una sorta di centro di comunicazione fra i diversi piani cosmici.

Gli aborigeni piantavano il palo ovunque eleggessero il loro temporaneo soggiorno. De Martino mostrò come la funzione del palo kauwa-auwa fosse sostanzialmente quella di destorificare la peregrinazione: gli Achilpa, in forza del palo attorno al quale procedevano nella conquista di nuovi spazi, “camminavano mantenendosi sempre al centro”. Il palo kauwa-auwa era per loro, per così dire, un asse del mondo in movimento.

La privazione di un “centro del mondo” crea dunque spaesamento e squilibrio.

Heimweh è il termine tedesco che indica la nostalgia di chi si trova lontano da casa, ma in senso lato anche la condizione di chi soffre di spaesamento esistenziale, sentendosi privato di una casa comune cui rapportarsi.

A mezza parete. Emigrazione nostalgia malattia mentale è il titolo di un bel libro dell’etnopsichiatra Michele Risso. L’allusione è all’alpinista che si trova in parete e non sa più dove andare. Questo concetto è di Ludwing Binswanger, il creatore della Daseinanalyse, disciplina psichiatrica a impronta fenomenologica a cui Michele Risso si è ispirato.

Prima di costoro Sigmund Freud aveva individuato nella categoria del perturbante (das Unheimliche) ciò che mette a rischio la normale percezione di sé e del mondo.

A me personalmente è capitato di osservare il comportamento degli anziani abitanti di Gibellina, che ripercorrevano attraverso i bianchi cunicoli del Cretto di Burri lo spazio perduto, alla ricerca del luogo in cui sorgeva la loro abitazione. Attraverso tale “pellegrinaggio” essi, in qualche modo, riguadagnavano uno spazio simbolico che li riscattava dell’assenza di quello realistico ormai non più disponibile.

Esaminando gli attuali, epocali, trasferimenti di enormi masse di persone dal loro originario contesto territoriale e culturale nell’Occidente massificato (non più tradizionale per la nota “scomparsa delle lucciole” analizzata da Pier Paolo Pasolini), il fatto che tutti i rifugiati abbiano perduto la casa (o la madrepatria) fa sì che essi esprimano un profondo senso di struggimento nostalgico e che desiderino riparare tale condizione di perdita, senza peraltro avere ormai dei sistemi di “difesa immunitaria”.

Nostalgia è il termine usato per descrivere l’intero fascio di tutti quei sentimenti, reazioni, speranze, timori, sogni espressi da chi non possiede più una patria culturale. In quest’ottica la nostalgia non può essere separata da ciò che la “casa” rappresenta soprattutto a livello simbolico. In particolar modo per i rifugiati, il disorientamento deriva dall’impossibilità di stabilire con esattezza la causa reale di una perdita che non si limita a quella tangibile di una casa tout court, intesa nella sua materialità, ma si allarga alla perdita di tutte le relazioni che il soggetto intrattiene con il proprio oikos, con il prossimo e con l’ecosistema in cui egli è inserito.

Migrazione e malattia mentale si pongono dunque come nodi critici irrisolti, proprio in quanto la loro genesi ha luogo all’interno di un sistema sociale come il nostro, meccanicistico e cinicamente capitalistico.

Esilio e memoria sono i temi attorno ai quali si sviluppa la tematica dello spaesamento. Per chi è costretto a lasciare la propria terra, il tempo e lo spazio cessano di essere coordinate domestiche, tramutandosi in realtà ignote e perturbanti.
Sparigliato dal viaggio, il corpo del migrante si fa quindi cartografia confusa che smarrisce la propria funzione di mappa, veicolando viceversa un grumo esistenziale destinato a tradursi in enigma identitario. Sotto i colpi delle vicende umane anche i punti cardinali e i riferimenti geografici si sgretolano e diventano elusivi.

“Alice e il Bruco si fissarono per qualche istante in silenzio: alla fine il Bruco si tolse il narghilè di bocca e si rivolse a lei con una voce languida e assonnata. «Chi sei?» le chiese il BrucoCome inizio di conversazione non era incoraggiante. Alice rispose alquanto timidamente: «Non… non saprei dirglielo, in questo momento… sapevo chi ero quando mi sono alzata questa mattina, ma credo di essere cambiata parecchie volte da allora»”.

Il viaggio, traslazione del peso del corpo in un altro luogo, scava solchi profondi, dischiude l’esperienza di universi irrelati e disgiunti. Ripropone drammaticamente l’eterna domanda sul senso del proprio essere nel mondo.

In alternativa è possibile rivolgersi al tempo: ecco che entra in gioco la funzione terapeutica della memoria. Coltivare il ricordo, vivere nel presente e nel passato, sono l’unico metodo efficace per conoscer(si), mettersi a fuoco, fissare in contorni provvisori la propria mutevole identità.

Dimenticare, infatti, è perdersi.

Alle forme di spaesamento che mi sono provato a descrivere, aggiungerei lo spaesamento ideologico in cui si trovano molti (chi scrive tra questi) che non riescono a trovare più ancoraggi plausibili nel tormentato panorama socio-politico in cui ci troviamo, lacerati tra nuovi paesaggi nei quali hanno cessato di avere cittadinanza le grammatiche e le sintassi di un tempo, e tuttavia consapevoli che nuove categorie di pensiero, nuove strategie ermeneutiche non siano ancora percorribili senza rischi. La situazione politica italiana è, sotto questo profilo, esemplare. I partiti e gli schieramenti che un tempo erano impegnati in maniera più o meno coordinata e solidale nell’edificazione di una società più equa, meno discriminante, più partecipativa, si sono arroccati nella difesa dell’establishment, ovvero continuano a coltivare sterili utopie palingenetiche, comoda nicchia per chi si è rassegnato alla perenne, ancorché “pura”, opposizione. Di contro, i partiti della conservazione e della difesa consapevole dei privilegi della classe egemone (ormai ridottasi in quanto a visibilità ma ferocemente presente nella finanza e nel malaffare) hanno ormai compreso di avere in parte omologato la cultura dei loro antagonisti, e lottano per strappare a questi ultimi il consenso di un elettorato ormai imborghesito e frastornato dall’illusione massmediatica, pronto a tutto pur di non rinunciare ai miseri privilegi che la casta gli concede.

Entrambi appaiono, di fatto, impauriti che nuove realtà possano sopraggiungere a gettare scompiglio in questa pax consumistica.

In una nota scritta in carcere nel 1930 Antonio Gramsci scriveva: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”; considerazione purtroppo quanto mai attuale nel nostro presente deserto.

Prego spesso che il Dio in cui credo intervenga in questa storia ormai fortemente impoverita, essendoci rivelati noi uomini di questo tempo incapaci di coltivare speranze e memoria. In caso contrario, e senza che sopravvenga un sussulto etico-politico che ritorni a declinare in modo nuovo e creativo le categorie dell’etica e della politica, il futuro che ci apprestiamo a vivere potrebbe rivelarsi più cupo di quanto il nostro cupo presente faccia presagire.

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