Ormai siamo in grado di studiare Vittorio Sgarbi come Bronislaw Malinowski studiava gli indigeni melanesiani delle Isole Trobriand. Gli elementi essenziali per una prima sommaria indagine antropologica su quest’uomo ci sono tutti.

Ci troviamo di fronte a una persona di tutta evidenza aliena da qualunque comportamento normale, il che soddisfa la precondizione di alterità dell’oggetto di studio richiesta in antropologia. C’è però anche la situazione oggettiva del nostro sguardo, che è quella propria di un’osservazione partecipante, altro requisito fondamentale perché al distacco necessario si accompagni una qualche forma di “partecipazione”, all’ottica etica un punto di vista emico. E anche in questo caso ci siamo: chi potrebbe negare che noi tutti partecipiamo, in misura certo di gran lunga inferiore ma purtuttavia mai del tutto assente, alla cialtronaggine eletta da costui a stile di vita?
Siamo pertanto legittimati a dispiegare uno sguardo, disincantato ma non distaccato, su Sgarbi. Sul suo mondo, i suoi orizzonti, il suo télos di uomo e di studioso.

Bene, occorre dire subito che il suo mondo negli ultimi tempi è stato il cesso. Egli si è messo in trono – per così dire – al centro di tale suo angusto ma confortevole regno, e ci ha gratificati del suo Verbo. Che, detto in quattro parole, è stato un compendio di scomposti turpiloqui rivolti esclusivamente, chissà perché, ai Cinquestelle e al loro leader Luigi Di Maio. A quest’ultimo Sgarbi ha più volte augurato la morte. E già questo fatto risulta antropologicamente interessante perché il nostro eroe la morte l’aveva già in anni trascorsi augurata con identica veemenza ad altre persone, il più illustre delle quali era il suo maestro Federico Zeri. Tale simbolica “uccisione del padre” deve aver accompagnato il giovane studioso lungo l’intero arco della sua carriera di storico dell’arte, e poi via via guitto televisivo, intrattenitore, parlamentare, polemista e incazzatocolmondointero per vocazione. Pare che il motto eletto da Sgarbi a stile di vita sia stato un perentorio Insulto ergo sum. Di fatto, se togliamo a questo personaggio gli insulti e uno stato generale di iracondia che si autocompiace nel parossismo delle offese arrecate a chi gli sta dinanzi, beh, rimane ben poco.

Nella sua attività, chiamiamola professionale, di storico dell’arte Sgarbi possiede le competenze che uno storico dell’arte degno di questo nome non può non possedere. Lui ci mette in aggiunta solo il carico da undici, un po’ ignobile ma sempre pagante nella nostra angusta società dello spettacolo, di un cinismo e un estetismo dannunziano d’altri tempi, che in ambienti diversi da quelli che gli sono congeniali (Barbara D’Urso et similia) vengono riconosciuti per quello che effettualmente essi sono, dispositivi luttuosi tipici dell’eterno fascismo italiano. In età infantile Sgarbi deve aver subìto un trauma pazzesco, se ancora oggi avverte il bisogno impellente di gridare come un forsennato senza motivo, proferendo frasi sconvenienti, al pari di un bambino capriccioso che pretenda di stare sempre al centro dell’attenzione.

Critico d’arte in fondo non disprezzabile, Sgarbi smarrisce rovinosamente ogni sua allure quando inizia a pontificare su cose che non rientrano nel suo angusto bagaglio dottrinario. Allora, come direbbe Andrea Camilleri, questo ex giovanotto invecchiato anzitempo “piscia fuori dal rinale” ed esprime concetti che a nessuna persona sana verrebbe in mente di partorire, come quando si propone di ricostruire il Tempio G di Selinunte o dichiara che il fascismo non esiste. Un serio problema questo signore, per sé e per la società che lo ospita. Un caso umano infine, che gli analisti non sanno se etichettare come farsa o tragedia.

Eccoci tornati al punto di partenza, all’utilità di studiare Vittorio Sgarbi come portatore di una cultura “selvaggia”. È oltremodo utile per noi farlo, per poterci guadagnare (come tanto tempo fa acutamente scriveva Claude Lévi-Strauss a proposito dei suoi selvaggi) la possibilità di veder rispecchiate in lui le nostre stesse tare, e farci avvertiti della loro carica distruttiva, e riuscire in tal modo a tenercene lontani.

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