Leggo sempre con un senso di vergogna ogni notizia riguardante abusi e violenze perpetrati ai danni di una donna. E spesso mi interrogo sui guasti del nostro vivere, sulle tante forme di familismo, di mammismo, di modelli educativi perversi – sovente valutati come normali – che creano uomini insicuri, incapaci di leggersi dentro, inadatti a gestire le proprie fragilità. Uomini puerili che non sono mai cresciuti e continuano a praticare la logica del branco e della sopraffazione. Essi sono, purtroppo, legione, e costituiscono una sorta di “autosufficienza impotente del genere” che giorno dopo giorno mina le nostre società, distrugge intere famiglie e perpetua modelli culturali di inaudita barbarie.

La percezione maschile della donna appare storicamente connotato da una peculiare ambivalenza di fondo. Per un verso la donna è stata percepita – e lo viene ancora presso molte culture – come un essere in qualche misura inferiore, occupante un posto di scarsa rilevanza nella gerarchia dei valori dominanti e socialmente condivisi; per altro verso la sua natura “altra” (un’alterità di genere percepita come stigma ontologico) l’ha resa comunque – attraverso una pluralità di rappresentazioni – portatrice di valori e di saperi che, proprio per la loro siderale distanza da quelli del mondo maschile, favoriscono la produzione di figurazioni “perturbanti” o, viceversa, angelicate.

Non è un mistero che la storia delle donne, da che mondo è mondo, sia stata declinata al maschile. Perfino l’universo popolare, subalterno per definizione e muto di fronte al grande teatro della storia, ha coltivato al proprio interno fortissimi meccanismi di esclusione, censura, tabuizzazione, rimozione, silenzio nei riguardi dell’universo femminile.

Una vecchia, ma preziosa, notazione di Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi) riguardante i rapporti tra cultura dominante e cultura popolare, può acquistare un senso nuovo laddove a “dominante” sostituiamo “maschile”, a “popolare” “femminile”, a “classi” sostituiamo “sessi”, ad “analfabetismo” “patriarcato”:

Cultura maschile e cultura femminile giocano una partita ineguale, in cui i dadi sono truccati. Dato che la documentazione riflette i rapporti di forza tra i sessi di una società data, le possibilità che la cultura delle donne lasciasse una traccia di sé, sia pure deformata, in un periodo in cui il patriarcato era ancora così diffuso, erano molto ridotte. A questo punto, accettare i consueti criteri di verificabilità significa esagerare indebitamente il peso della cultura (maschilista) dominante”.

Per effettuare uno scandaglio su tale abisso di incomprensioni e di orrori occorre forse operare preventivamente uno smantellamento sistematico di pre-giudizi che hanno fatto parte non dico della cultura maschilista ma della cultura tout court lungo l’arco di secoli, forse millenni di storia dell’Occidente (volendo limitarsi a quest’angolo di mondo).

Anche in tale prospettiva può soccorrerci la parafrasi di un aureo passo di Carlo Marx (L’ideologia tedesca), che – sostituendo al termine “classe” il termine “genere” – potrebbe essere così riscritta:

Le idee del genere dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, il genere che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. Il genere che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad esso in complesso sono assoggettate le idee di coloro alle quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti ( ….. ) sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di un genere il genere dominante, e dunque sono le idee del suo dominio”, etc. etc.

La donna dunque è stata sempre percepita come essere sublimato, desiderato, sognato, o viceversa aborrito, insultato e odiato, ma mai oggetto di una dialettica dei sentimenti. 

Risulta quindi agevole comprendere come in tale elementare e rozzo orizzonte culturale si sia venuta sviluppando la violenza. Una violenza cieca e bestiale, poggiante su pregiudizi atavici che come una metastasi hanno permeato pressoché tutte le società del pianeta, con la significativa eccezione di quelle riguardanti i cosiddetti “primitivi” o “selvaggi”, presso le quali la donna si trova a gestire una gamma variegata di pratiche, di codici, di segni, di prospettive simboliche che le conferiscono un ruolo non secondario, e anzi assai spesso preponderante nella sfera sociale.

Maga, strega, sirena, mammana, donna di fuori, maliarda, grande madre, santa, matriarca, sciamana, e viceversa schiava, animale da soma, strumento passivo per la soddisfazione dei sensi e la riproduzione della specie.

Sentina di impurità, fonte di pericolo e di contagi. I suoi liquidi sono rischiosi, mestruo, saliva, lacrime; il corpo della donna viene percepito come il corpo rabelaisiano così ben descritto da Michail Bachtin, un corpo che proviene dalla terra e della terra ritiene le sporcizie ma – ecco il contraltare – anche l’enorme potenziale di vitalità, di fertilità, di vis creativa …..

Attraverso tali modelli percettivi si dipana una storia in larga parte scritta dagli uomini per gli uomini, della quale tuttavia le donne sono state, nonché testimoni mute e passive, soprattutto pazienti osservatrici.

Come combattere la violenza contro le donne, piaga non secondaria a nessuna del nostro presente? Certamente attraverso un poderoso sforzo educativo di cui purtroppo non si scorge l’avvio presso nessuna delle società attuali, cosiddette civili…..

Occorrerebbe in breve una rivoluzione copernicana, un radicale mutamento di prospettive nella percezione dei rapporti tra uomini e donne, con l’avvertenza che i luoghi comuni, i falsi modelli e gli stereotipi allignano sovente anche nelle stesse donne, le quali in tal modo “fanno girare all’indietro la ruota della storia” (che volete farci, Marx mi è simpatico!) tutte le volte che accettano supinamente di rivestire un ruolo subalterno che è solo il frutto di una cultura malata.

Gli uomini dovrebbero insomma essere educati al fatto che non esistono “donne dei sogni” (in pratica proiezioni fantasmatiche dei propri desideri e delle loro paure), e iniziare a valutare ogni donna quale “altro da sé”, quale persona diversa dall’uomo e però dotata di analoga (se non superiore) intelligenza, libertà, dignità. Per giungere a tale percezione l’uomo (dico noi uomini, mi ci metto nel mezzo!) deve riuscire a ritrovare e riconoscere la propria fragilità, e deve farlo consapevolmente, imparando a convivere con essa, aborrendo le tentazioni di scaricare su altri le proprie fobie, i propri scacchi, le proprie miserie. Solo in tal modo potrà percepire questa splendida presenza che è la donna come una compagna di strada, come una complice e non come una rivale.

Circa mezzo secolo fa un grande etnologo italiano, Ernesto de Martino, ebbe profeticamente a sostenere che questo nostro pianeta è divenuto troppo angusto – tanto velocemente ormai lo si attraversa! – per poter tollerare semplici coesistenze tra i suoi abitanti, auspicando più autentiche forme di incontro tra le culture. Ebbene, è forse ormai giunto il momento di riconoscere che in un pianeta globalizzato come quello che ci ospita è altrettanto scandalosa la persistente mera “coesistenza” tra i generi, laddove le sfide del futuro invitano tutti noi, qualunque sia il genere che in-abitiamo, a riconoscere – finalmente senza pregiudizi – una superiore, umana, solidarietà. In tale prospettiva, le pur legittime rivendicazioni delle donne potrebbero trovare un esito “non belligerante” laddove intervenisse una volontà di pacificazione, secondo l’aureo insegnamento di un maestro Sufi, per il quale “il perdono è quella fragranza che i fiori emanano dopo essere stati calpestati”.

 

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