Sfrontati, risoluti e trasgressivi, i “Management del Dolore Post Operatorio” torneranno domani sera sul palco del Retronouveau per proporre dal vivo le tracce del loro ultimo album “Un Incubo Stupendo”. Per l’occasione vi proponiamo l’intervista di Francesco Mastrolembo, pubblicata originariamente il 23 marzo su Keeponlive, a Luca Romagnoli. Che racconta le storie, le aspettative e i pensieri che stanno dietro a uno dei progetti che si preannuncia tra i più quotati per la stagione indie e post punk del 2017.

Da un punto di vista dei concerti, questo album potrebbe segnare il passaggio ad esibizioni in club e spazi sempre più grandi. Come avete affrontato la preparazione del tour? Che feedback avete ricevuto dalla data d’esordio?
Dal momento che abbiamo suonato al Deja Vù di Teramo in un certo senso è come se avessimo giocato in casa. È andato tutto bene e ci siamo divertiti. La reazione del pubblico comunque ci fa ben sperare per le prossime date. Avendo infatti lavorato al disco dopo un periodo di pausa di un annetto, e avendolo quindi scritto con più tranquillità, è bello risentire un po’ quell’ansiettina, no? Come se fosse la prima volta… Però sappiamo a cosa andiamo incontro e siamo abituati: il live per una band come la nostra è infatti un momento molto importante durante il quale a livello energetico vogliamo sempre dare tutto…

 

 

Il lavoro precedente: “I love you” celebra le fasi di un amore nascente mentre in “Un incubo stupendo” la relazione cresce e vive i problemi di un equilibrio da conquistare tramite continui aggiustamenti e ripartenze. Quanto pensate vi sia di “incubo” e quanto di “stupendo” in questo lavoro di costruzione e distruzione?
Per come vedo io le cose, lo “stupendo” lo puoi trovare in tutto quello che viviamo, anche negli aspetti meno graditi: nel dolore, nell’infelicità , nella tristezza, cosa che è anche un po’ il marchio di fabbrica nostro e dell’indie in generale. Certamente ci sono cose dell’amore, soprattutto nel  suo lato un po’ distruttivo, contro le quali non ci lotti più perché maturando capisci che fanno parte della vita e le devi accettare per quello che sono. Non puoi quindi sempre essere felice, non può sempre andar tutto bene, ma questo è un “incubo” che, come detto, fa parte dell’esistere. In ogni caso, per non banalizzare l’amore, penso che lo si debba comunque sempre rinnovare, cercando di distruggere la banalità in tutti i suoi aspetti, ad esempio anche sessualmente.  Se arriviamo infatti alla ripetitività ossessiva delle cose, si sminuisce facilmente tutto e si cade nella noia, cosa che è negativa per chiunque, figuriamoci per chi si vuole muovere sul livello poetico o artistico.

 

Foto di Antonio Vezzari

 

Pur avendo subito diverse transizioni avete saputo guidare il vostro pubblico e sembra che abbiano accolto questi cambiamenti di buon grado. Quali sono per voi i cardini della comunicazione tra artista e pubblico durante i live? Quali quelli legati alla comunicazione online?
Questo è il nostro quarto disco ufficiale. Anche se in certe canzoni abbiamo lasciato meno spazio alle nostre solite provocazioni cercando dei sentimenti un po’ più universali come la malinconia, la tristezza, a tratti anche l’amore visto dal nostro punto di vista “particolare”. Abbiamo sempre abituato il pubblico a non aspettarsi niente, e quindi ci accettano, magari criticano, ma senza attese particolari. Del resto chi ci vuole sempre uguali a noi stessi può anche andare affanculo e ci sta bene così. Pensare che una persona debba artisticamente sempre riprodurre la stessa cosa all’infinito è infatti una bestemmia e il cambiare, per come intendiamo noi la musica, o il cercare qualcos’altro anche in noi stessi, è quindi quasi d’obbligo, è naturale. Tutto ciò ci dà la possibilità, inoltre, di vedere come siamo e quanto siamo cresciuti, quindi è una cosa anche necessaria. Di certo, a differenza di un tempo, oggi c’è più libertà da parte dell’ascoltatore di criticarti, di dire anche fraternamente “guarda, mi piace questo, non tanto quell’altro” etc.. I social da questo punto di vista sono quindi importanti perché aumentano questa possibilità per il pubblico. Spesso rispondiamo, a volte no, perché c’è chi lo fa perché non ha niente da fare, e chi, come detto, esprime la critica fraterna da amico, cosa che del resto faremmo anche noi faccia a faccia.

 

 

Il vostro pubblico, anche per ragioni anagrafiche, è molto sensibile al modo in cui descrivete o fornite vie di uscita alle problematiche legate al vissuto odierno. Quanto e in che modo sentite la responsabilità nei confronti dell’ascoltatore? Siete soddisfatti del modo in cui comunicate? 
Io penso che l’unica cosa che si evince dall’ascolto di tutti i nostri dischi e dalla visione dei live è che ci piace portare avanti la tematica dell’assoluta libertà, in tutti sensi, di espressione, sessuale, insomma quello che cavolo ti pare, toccando anche a volte dei picchi di idiozia, di stupidità, come quando ad esempio comincio a parlare di fica, di sborra etc.. Per come la vedo io, infatti, questo è un modo di liberare tutti liberando se stessi, come a dire “ma dai,  scherziamoci un po’ su… si può parlare… Ognuno deve essere fiero e contento di fare quel che cazzo gli pare, di aprirsi!”. Questo è un gioco che facciamo spessissimo, arriviamo come detto anche a fare schifo per dare a tutti la possibilità di pensare che si può star tranquilli, che va bene tutto. ll modo in cui comunichiamo è quindi totalmente libero. Certo, probabilmente si potrebbe fare di meglio, a volte ci dilunghiamo, soprattutto oggi che la comunicazione richiede dei margini più stretti, ma penso che questo faccia anche parte dei difetti bellissimi che abbiamo tutti quanti. E’ per questo che non ci interessa particolarmente il nostro modo di comunicare: non vogliamo insegnare niente, al limite può interessarci dare una sensazione su alcune emozioni che sono universali, ma mai di dire “bisogna fare così per…” o “bisogna essere così..”. Ognuno ha il suo personale modo di stare bene, io ho il mio e  ho le mie perversioni. Se ci deve essere quindi un messaggio che deve passare è che “siamo tutti completamente liberi di trovare la nostra strada” e di conseguenza, nessuno ti può puntare il dito, puoi trovare la salvezza nel modo che vuoi, come preferisci. Io, ad esempio, la trovo nei piaceri del corpo, un altro la trova nei piaceri metafisici, e va bene così.

 

Foto di Antonio Vezzari

 

Musicalmente “Un incubo stupendo” appare meno spigoloso dei lavori precedenti, più asciutto ed essenziale, con interessanti interventi musicali a sostegno dello sviluppo emozionale dei testi. Per quest’anno avete anche allargato/modificato la formazione, con l’arrivo dei IMURI. Quali sono i stati i cambiamenti principali?
La prima novità evidente sta già nel fatto che per questo tour suoniamo con questi tre ragazzi di una band di Teramo, quindi sempre abbruzzese, e che siamo per la prima volta in cinque in una formazione con due chitarre, batteria, basso etc.. Sarà banale, ma se ci rifletti la cosa bellissima della musica è che se anche cento persone suonano la stessa cosa, le stesse note allo stesso posto, gli stessi accordi, il risultato non potrà mai essere uguale, perché ognuno ha la propria attitudine allo strumento, il proprio pedalino, il proprio amplificatore, la propria testa, il proprio tempo. Il fatto, quindi, che ognuno ha questo diverso ritmo interiore fa sì che il semplice cambiare le persone in un progetto, rappresenta di per sé una novità sonora. La scelta dei IMURI, poi, è particolarmente decisiva soprattutto nel live, dove siamo sempre incapaci di trattenere le energie, di tenere le corde legate, e ci lasciamo andare tantissimo. Suonare in questa formazione facilita quindi la possibilità di essere più rock punk rispetto a quanto facciamo nei dischi, tirare fuori qualche energia in più e comunicare quindi meglio quello che diciamo.

 

 

La maggior parte del pubblico italiano sembra essere molto vincolato ad ascoltare sonorità pop. Anche chi vuole fare rock a volte sembra sempre che deve sempre “addolcirlo”. È così anche per voi?
Non credo sia così, o per lo meno… E’ vero che oggi il panorama delle etichette indipendenti si sta aprendo al pop, e che se quindi vuoi andare in televisione o in radio, ti si richiede un po’ più di ammorbidimento, ma non tutti gruppi lo fanno e comunque non tutti lo fanno con la stessa facilità, gli stessi tempi o modi. Per quanto ci riguarda, poi, io non penso che addolcire sia l’unico modo per entrare in certi contesti… anzi, a volte può anche essere utile esagerare al contrario per cercare una nuova sonorità che pur non essendo pop, possa comunque arrivare ad un pubblico più vasto. Questo è, ad esempio, molto evidente nel fenomeno del rap dove ci sono gruppi che estremizzano certi aspetti, parlano di droga, violenza, persino di misoginia e comunque hanno seguiti importanti dimostrando che ci sono determinati estremismi anche sonori che piacciono ad un grande numero di persone. In Italia, questo è certamente più difficile da fare, ma non per questo bisogna farsi condizionare: ognuno ha un modo di essere sé stesso e se ti trovi in un momento che vuoi fare quella roba lì, semplicemente la fai. Il panorama indie ha certamente incontrato le esigenze di quella parte di pubblico che non vuole vendersi a certi stereotipi, che magari prima ascoltava il cantautorato e che cerca contenuti più profondi della media di quello che passa generalmente per radio. Da questo punto di vista penso che è anche quello che facciamo un po’ tutti noi:  l’importante è non tentare di fare qualcosa di un mondo che non ti appartiene, perché se veramente non ti appartiene se ne accorgono tutti e fa schifo. Se invece ci riesci va bene così.

 

(intervista di Francesco Mastrolembo pubblicata originariamente il 23 marzo su Keeponlive)

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