MESSINA. Le Barette a Messina, ma anche la via crucis di Savoca, i “giudei” di San Fratello, i canti di Longi, le varette di Barcellona Pozzo di Gotto, i “babbaluti” di San Marco D’Alunzio, la corsa di san Leone a Sinagra: la provincia messinese pullula di tradizioni pasquali, dalle più antiche a quelle moderne, da quelle più contemplative alle più lugubri, che spesso abbandonano il cristianesimo e sconfinano nel paganesimo spinto.

A Messina, il venerdi santo è il giorno in cui per strada sfilano in parata le Barette: processione che affonda le sue radici nel lontano 1610, e rappresenta le tappe della passione di Cristo, con fercoli portati a spalla, e regolata da un comitato di undici battitori. E se le Barette celebrano il calvario e la morte di Cristo, due giorni dopo, la domenica, del Nazareno viene celebrata la resurrezione nella festa degli Spampanati, anch’essa processione di fercoli in giro per la città, chiamata così poiché tradizione vuole che a questa festa pasquale partecipassero avvenenti fanciulle del contado e che, per l’occasione, smessi gli abiti invernali, indossassero vesti in seta fiorita, dai colori sgargianti, da cui il termine spampanati.

 

A Savoca va in scena la Passione di Cristo, che si tiene ogni anno nel giorno della domenica delle palme e poi a pasqua. Non è una tradizione storica (la prima edizione risale al 2005), e a parte lo scenario spettacolare di Savoca, lungo le cui viuzze la processione si svolge, per il resto è molto didascalica, limitandosi a ripercorrere le tappe della passione di Cristo. Barcellona Pozzo di Gotto, di “vare” ne ha addirittura diverse, divise tra quelle di Barcellona e quelle di Pozzo di Gotto, mentre a Sinagra per le vie del paese,  invece di Cristo fanno correre (letteralmente) il patrono san Leone.

 

Tuttavia, è man mano che ci si sposta in provincia che le cose iniziano a farsi più misteriose, più macabre, più oscure. A Longi è lo stridore delle catene a precedere l’alba del Venerdì Santo, in un clima da pieno medioevo. I confratelli del Santissimo Sacramento, in segno di pentimento, si percuotono durante lo svolgimento della prima “cerca”.  Nelle prime ore mattutine il miserere è cantato dai confrati mentre percorrono le vie con le “discipline” (strumenti di flagellazione) ed intonando canti penitenziali tradizionali, mentre nella notte si ripercorre la tradizione della morte di Cristo, il tutto alla luce dei “lumini” che due ali di fedeli portano in mano. Alla processione prendono parte le “maddalene” (donne vestite di nero) e gli angeli (ragazzi vestiti di bianco).

 

La palma per la più strana delle liturgie pasquali, però, va alla festa dei Giudei di San Fratello: una processione molto più pagana che cristiana, con uomini vestiti con un’uniforme assurda (foggia ottocentesca, gialla e rossa, ricamata di perline, elmetto decorato, spalline militari, guanti e scarpe di pelle), che vanno in giro facendo un casino spaventoso, con strumenti musicali a fiato, e disturbando le liturgie più tradizionali. Perché tutto questo? Per una nemmeno troppo velata lettura antisemita dei fatti del vangelo: i giudei sono il popolo che si è macchiato di deicidio, e a san Fratello questa rappresentazione domina il venerdi santo. Oltre che di uniforme e strumenti musicali, i giudei sono provvisti di maschere parecchio sinistre e della “disciplina”, una specie di catena con la quale flagellare e autoflagellarsi. Perché i giudei sono la rappresentazione grottesca del crocifissore, del flagellatore e del soldato che affondò la sua lancia nel costato di Gesù. Il fatto che vadano in giro per le case del paesino a farsi offrire dolci e soprattutto vino, dona al tutto un che di allucinatorio. Che dura fino all’alba.

 

Non meno strana, anzi forse anche più inquietante, è l’atmosfera penitenziale che si respira nella tradizione dei Babbaluti di San Marco D’Alunzio: trentatré (numero che ricalca gli anni di cristo) penitenti incappucciati che portano in processione il crocifisso per voto, vestiti di un saio color blu indaco (un tempo era grigio cenere) e scalzi, ma con indosso i “Piruna”, pesanti calze di lana di pecora lavorate a mano. Loro compito è scortare la vara col Cristo in Croce (scolpito nel 1652, e recentemente restaurato) ed un quadro raffigurante l’Addolorata trafitta da sette spade, appartenente al XVIII secolo. A rendere misteriosa e macabra la celebrazione è la modalità di “parata”: tutti insieme con passo cadenzato, prima escono dall’antica “chiesa del Crasile” (nella quale a nessuno è permesso entrare per assistere), e camminando ripetono incessantemente la frase “Signuri, misericordia, pietà!“. Prima di tutto ciò, un altro complicato rito: prima di recarsi alla vara, a coppie devono inginocchiarsi e baciare in terra all’inizio della scala d’accesso di una porta secondaria della chiesa, detta Porta Fausa (Porta Falsa), quindi uscire dalla porta principale dopo il necessario rito di “pentimento e rinascita”, e così giungere davanti alla vara per poi inginocchiarsi davanti ad essa. Qui il Sacerdote pronuncia la sua predica, in un profondo religioso silenzio. Ricordando a tutti che, prima o o poi, devono morire.

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