Non sono state le manipolazioni ideologiche e letterarie che, scriveva Giarrizzo, hanno finito con il restaurare ”il serbatoio dell’arcaico e dei valori atemporali, e con l’esportare nelle comunità emigrate il ‘paradigma culturale’ della sopravvivenza fisica “attraverso l’identità culturale”?  E aggiungeva: “questo modello plasma la struttura della criminalità isolana, le conferisce autorità, ne legittima le ambizioni di potere”, per una storia costruita retrospettivamente con il suo passato mitico. Lo statuto avrebbe dovuto dissacrare le ridondanze della cultura sicilianista alla ricerca di “una Sicilia diversamente siciliana”, non quella del potere e della violenza, ma “la Sicilia moderna dei diritti naturali e civili”.

Si sono rimarcate al contrario connivenze, in un senso comune irrigidito e immobile, accentuate da un autonomia che agli inizi esaltava il blocco storico dei clerico reazionari, degli agrari, dei percettori di rendite parassitarie e poi nel tempo lo ridisegnò ingigantendo i poteri discrezionali di famiglie, di clan, califfati, e nell’affollato crocevia tra risorse, burocrazie, patrimonializzazione del pubblico, affari, mafia e politica-. 

Ma quale governatore ha pensato, per determinare logiche di cambiamento, a un doloroso sincero interrogarsi, invece di rifuggiarsi nei comodi padrepiismi?

La Chiesa, un po’ dappertutto ha chiesto perdono. Certo, il perdono però non cancella la storia. Ciò è stato compiuto rimane, indelebile. Diceva Bobbio: … Anna Frank continuerà a morire in un campo di sterminio. Chissà, forse questo è stato un suggerimento per analisi, giudizi critici e ripensamenti “laici”.  

Ma sarebbero bastata la invettive di Agrigento, isolate in un contesto trionfale, auto giustificazionista e immobile?

Dovrebbero essere messi in opera forse due atti di discorso: in basso, la confessione della colpa, col linguaggio dello scacco, della solitudine, delle situazioni–limite su cui si innesta il pensiero riflessivo, il luogo dell’accusa morale, l’imputabilità; dall’altro ”la poesia sapienziale che celebra amore e gioia”: ma l’impossibilità del perdono fa da replica al carattere imperdonabile del male morale. E in Sicilia le stagioni dello scandalo, delle stragi, della cultura mafiosa diffusa, della criminalità mafiosa, così strutturata da non aver nemmeno bisogno di apparire, sono state alla fine accettate, come modo di garantire modelli di convivenza, ordine, pace sociale, in sintonia con i bisogni del potere, infrattato nei meandri dello scambio improprio, con pratiche capaci di eccitare un narcisismo diffuso, in una sorta di estetica mafiosa.

Per tentare di innescare nuovi processi, per immaginare un senso di modernità occorrerà tener presente che tratto costante della modernità è un’accelerazioine del ritmo della crisi, ci ammonisce Eco. Da questa crisi non ne usciamo senza accelerazione dei ritmi e senza una sua necessaria consapevolezza ed è questo che ci complica oltre modo l’accesso ad un divenire migliore e altro. Certo questo non vale per quanti non hanno mai percepito la crisi.  E è così che il blocco storico torna al suo essere permanente auto referenziandosi. Poi quanti governatori-Golem, creature d’argilla che avrebbero dovuto far nuove tutte le cose e portarci per mano fuori dall’incubo dell’apocalisse,  invece non sfuggiranno al controllo di chi li aveva inventati (ma chi li aveva inventati?) e finiranno per produrre ancora catastrofi?  Certo, dopo performance di aggressiva violenza siamo  al portato di una cultura soft, “da mafia light”: in un ovattato sicilian style of life, con tutte le sue pratiche devozionali, con una nuova combinazione coercizione/consenso. 

Filosofi potrebbero ricordarci che oltre alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità, tutte cose di cui lo statuto non fa comunque cenno, dovrebbe essere importante anche “la felicità della ricerca (happiness of pursuit), che è precisamente la felicità di prendere parte all’azione collettiva.”  E non l’elogio enfatico della dissennatezza del prima. Ma lo statuto sperato, non seguirà. E abbiamo goduto di una costituzione materiale lunga 70 anni, solo a tratti generosamente e/o dolorosamente interrotta, quando assieme a tanti, i poveri eroi morti ammazzati,  tentava, di rendere gentile il destino della nostra terra. Poi la permanente logica termidoriana. 

Ed è come se lo statuto, con le caratteristiche di legge costituzionale, fosse stato firmato a Portella della Ginestra. 

Poi la mafia e i poteri che contano, imboccheranno, con abbondanti prospettive di crescita, nell’immunità e nel consenso, la più sicura e “performativa” via parlamentare al potere. Scoppola diceva anche di casematte o trincee, per un blocco d’ordine che avrebbe dovuto, è vero, tenere a bada i socialcomunisti, ma i cui esiti sarebbero stati certamente involutivi rispetto al possibile inverarsi di una democrazia fondata sui valori, e non soltanto su una piatta gestione dell’esistente. Ma in Sicilia, è come se fosse prevalso un disegno che avrebbe dovuto ripristinare, pur rivestito di funambolismi dialettici, antichi equilibri. Su Cronache sociali di Dossetti era possibile leggere che “il fondo conservatore della mafia” era come se aderisse in modo “perfettamente omogeneo” alla classe dirigente siciliana e, alla fine sarebbe  diventato omogeneo “indirettamente o per acquisizione, alla classe dirigente italiana”. Ed era l’autonomia concepita con quei caratteri che la fecero speciale fin dal momento in cui fu pensata, scriveva Renda. Il lavoro di ritessitura dell’ordito sociale, fino all’innervamento di nuova cittadinanza, non apparterrà alle disposizioni statutarie, belle o brutte che siano, ma alla volontà degli uomini: alla produzione di nuova cultura. La cultura della cittadinanza. Ma quel che è certo è che in Sicilia la mafia e la mafiosità, le loro complicità, il blocco storico che permeano, “ la mentalità”, non sono l’anti/Stato, dal momento che si muovono come all’interno di uno stato, con connotazioni particolari (l’Ordinamento parallelo di Santi Romano?), ma sempre all’interno di un economia di mercato, violenta certo, ma sempre “di mercato”, ottenendone tutte le necessarie tutele: in una diversificazione di attività -dal fortemente illegale e talvolta truculento, all’impresa illegale ma perbene- “senza schizzi di sangue visibili”, con attività ritenute di fatto praticabili dall’immaginario comune, e infine all’impresa che diviene legale e che diviene sostanza di un procedere economico, rispetto al quale “ approfondimenti e analisi del sangue” sarebbero pericolosamente controproducenti ai fini dello sviluppo o comunque del buon muoversi della vicenda complessiva. 

C’è sempre un problema. Ed è un problema di consenso. Godelier scriveva: il fattore più forte non è la violenza dei dominanti ma il consenso ideologico dei dominati: da tolleranti e indulgenti a fiancheggiatori, portatori sani appunto? Ma è possibile che a progettare e a decidere come salvare una forma di cacio sia sempre un consesso di sorci?  Se lo chiederà Luigi Pintor. Ma, in generale, qual’ è il tipo di giudizio che matura intorno ad una azione corrotta?  C’è una disfunzionalità sociale e politica, da accettare comunque, perché altrimenti il sistema “si incepperebbe? Appunto, è come leggere a proprio uso Merton quando dice, certo senza voler offrire piattaforme di liceità, che la corruzione, non può essere repressa se supplisce a deficit di intervento di strutture deputate: addirittura senza questa integrazione il sistema ne avrebbe danni. Perciò è come se fosse una sorta di supplenza umanizzante proprio perché supplisce a carenze funzionali. La corruzione come risposta razionale alle esigenze di una difficile allocazione delle risorse?  E sarebbe in definitiva l’interesse della causa che restituisce la liceità? E allora perché non riandare a Raskonikoff  (…e a Napoleone non avrebbe potuto fare diversamente)  che uccide l’usuraia per non disattendere il suo ineludibile appuntamento con un futuro desiderabile? 

70 anni dopo quindi bisognerà ancora chiedersi come modificare un sistema, inteso come modo di sentire e di pensare, di essere, di strutturare relazioni, in un immaginario sociale dove si sono veicolati psuedo-valori; e dove l’illegalità, normalmente vissuta e accettata acriticamente nelle interazioni quotidiane e nei vari contesti, finisce con l’essere agita -per i processi imitativi che insorgono anche attraverso la produzione culturale delle istituzioni- con i loro statuti, ma soprattutto con tutti quei modi sicuramente congrui alla permeabilità delle prassi.

E allora, perché non ammettere che abbiamo goduto di uno statuto a- valoriale lungo 70 anni:  fin dal ricatto per l’inserimento nella Costituzione senza un pur necessario vaglio di congruità. 

Sì, in Sicilia prevalse un disegno che avrebbe dovuto ripristinare, pur mistificato dai funambolismi dialettici di avvocati e giureconsulti di provincia, gli antichi equilibri. Il blocco storico al fine di impedire che il vento del nord soffiasse anche nell’isola oppose la barriera dell’articolo 14 con esercizio della potestà legislativa esclusiva. Nessun aspetto del rinnovamento italiano sarebbe passato in Sicilia senza il consenso legislativo della assemblea regionale. “Così le trasformazioni, effetto dei mutamenti profondi della società nazionale, per noi sono rimaste un problema aperto”, diceva ancora Renda. 

E avrebbe avuto ragione Gambi quando, circa 40 di anni fa, introducendo da geografo  la monumentale Storia d’Italia di Einaudi, dopo essersi addentrato nei significati complessivi degli spazi regionali,   scriveva che nel mezzogiorno “quella a cui si dà il nome di regione è solo una zona che ripete un ritaglio economico-giurisdizionale segnato alquanti secoli fa -quindi in situazione storica inconfrontabile con quella odierna-“. E aggiungeva che da noi questa cosiddetta regione “si distingue, a volte in modo esclusivo, per idiomi, forme di vita e di insediamento, costumi famigliari e sociali che risalgono a epoca remota: cioè precisamente le situazioni e le forze che impediscono ora una sua ristrutturazione …”

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