Saro Cattafi non è stato capo della mafia barcellonese e i suoi rapporti col gruppo mafioso non vanno oltre il 2000, questa parte della sentenza di secondo grado è adesso definitiva. Tutto da rivedere, invece, per quel che riguarda i suoi rapporti col clan di Barcellona dagli anni ’70 al 2000. 

Questo è quanto ha deliberato la Corte di Cassazione alle 21 di mercoledì.

Ma cos’era successo prima di questa sentenza?

A novembre del 2015 la Corte d’Appello aveva condannato Cattafi a sette anni di reclusione per essere stato affiliato alla mafia barcellonese fino al 2000. Aveva cioè ridotto la pena di 12 anni inflitta in primo grado ed escluso il ruolo di capo della mafia tirrenica fino al 2012. Per questo motivo Cattafi, ristretto in regime di 41 bis, era tornato in libertà, condizione confermata dal Riesame per cui vista la sentenza d’Appello che gli riconosceva un ruolo di affiliato fino al 2000 non poteva riscontrare l’attualità della condotta criminale. In primo grado Cattafi aveva subito una condanna ridotta di un terzo per aver scelto il rito abbreviato. L’avvocato barcellonese da più collaboratori era stato indicato come uomo chiave della mafia del Messinese dagli anni settanta in poi. Era stato arrestato nel 2013 dopo le rivelazioni di Carmelo Bisognano che lo aveva definito “soggetto apicale dell’organizzazione barcellonese e collettore fiduciario dei proventi illeciti conseguiti dai membri apicali e storici delle due citate organizzazioni mafiose”. Nel fascicolo dell’inchiesta che portò al suo arresto nel 2013 sono riportati anni di storia giudiziaria che lo volevano ai vertici della criminalità organizzata del Messinese fin dagli anni settanta. Coinvolto negli anni in procedimenti penali avviati dalle procure di Milano, Caltanissetta, La Spezia, Palermo e Firenze, era stato in carcere nel 1993 per l’inchiesta dell’autoparco milanese  per cui era stato condannato dal tribunale di Firenze sia in primo grado che in secondo, le sentenze furono poi annullate dalla Cassazione. 

Tra i reati contestati a Cattafi anche la Calunnia, aveva infatti accusato l’avvocato Fabio Repici di aver determinato la collaborazione di Carmelo Bisognano per indurre quest’ultimo a rilasciare dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti ed in particolare ad indicarlo come uno dei soggetti al vertice della famiglia mafiosa barcellonese.

Al processo sulla trattativa Stato – Mafia, Rosario Pio Cattafi, detto Saro, si è avvalso della facoltà di non rispondere lo scorso ottobre. Eppure durante le indagini preliminari ai pm palermitani disse di aver ricevuto una richiesta da parte di Francesco Di Maggio, allora vice capo del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) mentre era detenuto per l’indagine sull’autoparco di Milano. Di Maggio, avrebbe raccontato Catafi ai magistrati palermitani, gli chiese di contattare Nitto Santapaola, usando come tramite l’avvocato Salvatore Cuscunà. Di Maggio avrebbe chiesto un’intercessione a Cattafi per fermare le stragi. Ma l’avvocato barcellonese ha deciso di restare in silenzio in sede di dibattimento, non permettendo dunque che questo racconto venisse acquisito nel processo.

Il processo ha riguardato anche altre cinque persone: la condanna di primo grado confermata per tutti  tranne che per Agostino Campisi per cui è stata rideterminato la pena in aumento di due anni invece che a 4 anni e 4 mesi. Era stato tutto confermato invece per Giuseppe Isgrò, considerato il cassiere del clan, Tindaro Calabrese ritenuto il boss della frangia dei “mazzarroti” , Giovanni Rao, considerato elemento di spicco del clan e Carmelo Salvatore Trifirò . Nel processo sono stati impegnati gli avvocati Tino Celi, Tommaso Calderone, Giuseppe Lo Presti. Il processo di primo grado, in abbreviato, si era concluso il 16 dicembre 2013, il gup Monica Marino aveva condannato Giuseppe Isgrò a 7 anni e 6 mesi, Tindaro Calabrese a 6 anni e 4 mesi,  Giovanni Rao, a 5 anni ed 8 mesi e Carmelo Salvatore Trifirò  a 4 anni ed 8 mesi. La Cassazione ha invece confermato le condanne di Isgrò e Rao rigettando il ricorso dei difensori. Questi ultimi erano i soli, oltre Cattafi, per cui pendeva il giudizio della Corte.

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