La lunghissima e costosissima gestazione per la (semi) apertura al pubblico, del nuovo Museo di Messina è stata stimata in trent’anni tondi tondi.

Trent’anni sono quelli che rendono adulti gli uomini e le donne, che consentono scelte, decisioni e ripensamenti, ma sono ancora un’età di giovinezza. I trenta anni di costruzione e apertura del nuovo museo vanno sommati invece a tutti quelli che sono passati dalla data del sisma 1908. Già, perché il nuovo Museo era uno di quegli edifici ritenuti prioritari e dopo il sisma fu messo tra i primi cinque da costruire, fu reso noto come progetto di massima attraverso le imponenti prospettive nel progetto del Museo Nazionale di Messina di Francesco Valenti del 1913, poi ancora dimenticato e ridimensionato al solo edificio della ex Filanda Mellinghoff-Barbera con l’apertura nel 1953, e poi ancora una serie di restauri, allestimenti, direttori, progettisti, custodi, norme e forme museografiche, teorie ed esperienze d’uso a cavallo di un secolo.

A metà degli anni ‘70 un progetto commissionato dal Ministero dei Beni Culturali al maestro dell’architettura Carlo Scarpa coadiuvato da Roberto Calandra, riportò tensione e forma al tema, per dare alla città attraverso un grande museo, quello che giustamente era stato ritenuto (teoricamente) prioritario nei programmi del dopo terremoto. Costruire uno spazio museale importante quasi come sutura delle ferite e come terapia per elaborare il lutto umano e urbano della città distrutta.

La Regione Sicilia, cui nel frattempo erano state trasferite le competenze d’indirizzo e gestione dei beni culturali, con la solita lungimiranza che contraddistingue le politiche siciliane tradusse l’imput progettuale di un maestro riconosciuto come Carlo Scarpa in un pacchetto operativo con la forma dell’appalto, concorso

Una cordata d’imprese con altri progettisti affermava nei risultati lo sbilanciamento delle regole dell’appalto e del mercato sul lavoro intellettuale e artigianale dell’architetto come traduttore delle necessità spaziali e sociali di una comunità. La forma generale del contenitore che leggiamo oggi, allude a un progetto frutto di quel concorso, poi riempito di contenuti, linguaggi e allestimenti con altri progetti successivi; un ventaglio di progetti d’esterni e d’interni separati alla nascita.

Il risultato di oggi contiene una successione infinita di progetti, strati, stagioni politico-culturali e architettoniche. Con le porte parzialmente aperte, socchiuse o chiuse, la stagione sociale del Museo, ha avuto una prima inaugurazione, ma in fondo deve ancora cominciare.

In questo tempo lungo un secolo, in questo tempo speso o dissipato quel museo c’è; il museo racconto interdisciplinare della città ma nato fuori città, su un margine esterno a causa dell’emergenza post sisma e con carattere di provvisorietà diventa poi permanente.

Nel frattempo che si costruiva il nuovo Museo sulla spianata dello scomparso cinquecentesco monastero di San Salvatore dei Greci con la vecchia ex filanda trasformata in Museo, tutt’intorno la città ha svolto la sua vita: ha demolito, costruito, occupato, inventato, speculato, omesso, deturpato, viaggiato, ipotizzato, cementato, collegato. 

Quel margine urbano esterno, importante ma non centrale, fuori dal tessuto consolidato e attraversato distrattamente, vivo ma anche incerto, ha assunto spesso (per inerzia) delle capacità magnetiche attraverso le funzioni urbane che si sono via via insediate, (ospedale, sbarchi e caselli del traghettamento privato, attività ludiche, parchi divertimenti e circoli sportivi, residenze, scorie costruttive, aree per pompe di benzina, capolinea del tram).

Il tema mai affrontato in termini d’investimento e di ragionamento è oggi quello di aprire la città al suo museo e quindi non solo di aprire il museo alla città. Le città si aprono alle funzioni specifiche degli edifici attraverso il progetto urbano, quello che legge, ordina, connette o tiene insieme il congruente e l’incongruente, prodotto dalla vita delle città. 

Il museo ha intorno e all’esterno del suo recinto un’area pregiata ma sfilacciata, fatta della stazione terminale del tram configurata in un container metallico con un serbatoio sul tetto e quattro pensiline arrugginite, di un’arteria stradale poco attraversabile, di una costa ingoiata dalle attività di scarico e carico delle navi traghetto private, di un decadente luna park da paesello, di un muro invalicabile di intonaco arricciato con dentro campi da tennis scoperti e coperti con  mare e spiaggia  riservati; poi un giardino pubblico separato costruito sulle macerie della guerra portate con i muli dai poverissimi carrettieri messinesi del dopoguerra, e un parcheggio vista mare sul lungomare dissestato, ma anche l’inizio della pista ciclabile di costa. Poi ancora i condomini esclusivi degli anni settanta, quelli popolari subito dietro, la soglia urbana verso gli storici villaggi di costa, il Paradiso e le sue case basse, insediamento semi abbandonato di una marineria popolare scomparsa, poi dietro l’ospedale abbandonato, accanto la traccia potente della fiumara dell’Annunziata in forma urbana tombata. Il tutto tenuto insieme dalla meraviglia della linea di costa e dalla forza del paesaggio dello Stretto di Messina, spesso mortificato da ostacoli visivi rozzi e casuali.

Per qualsiasi architetto che si occupa di progetti urbani, per qualsiasi istituzione pubblica, per qualsiasi amministrazione statale, regionale, metropolitana o comunale, per qualche ipotetico attore della vita economica della città, o gruppo di pressione e network culturale, per qualsiasi investitore o promotore urbano, questi materiali grezzi o sfilacciati intorno al museo sono un tema di proposta e di progetto del presente e del futuro. Perché ad aprile se poi tutto va bene e il museo si aprirà con tutti i suoi servizi, gli spazi di biblioteca e i laboratori annessi, i contenuti, l’archeologia, i dipinti, le sculture, i frammenti architettonici, rimanderanno in circolo non solo il passato e le antiche vestigia ma un’idea di città cosmopolita, che connetteva esperienze globali e locali, a quel punto forse sarà il museo che dirà: Apriti Città

#aprititesta #apriticittá #apritisguardo #apritimuseo

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Carmelo Russo
27 Gennaio 2017 2:20

Messina, città sfortunata!

Antonio
Antonio
27 Gennaio 2017 8:49

Chi è l’autore di questo ottimo articolo?? Mi complimento !!

Ninni Artemisia

mm
Editor
27 Gennaio 2017 10:46
Reply to  Antonio

Luciano Marabello, il titolare del blog

Simona
Simona
28 Gennaio 2017 7:15

Bellissimo articolo