Cretto di Gibellina

È un’opera di land art realizzata da Alberto Burri tra il 1984 ed il 1989 nel luogo dove sorgeva l’antica città di Gibellina, spazzata via dalla faccia della terra nel disastroso terremoto del Belice del 1968. Detta semplice, è una specie di labirinto che ricalca la pianta della città vecchia, un enorme (85mila metri quadrati) sarcofago di cemento che ricopre le vecchie case distrutte, percorso da quelle che nel paesino erano le vie. In realtà è un luogo della mente, una piccola Stonhenge. Inquietante, allucinante, malinconico, stupefacente, straniante, specie d’estate, a mezzogiorno, quando l’aria intorno è ferma, rovente, e l’unico rumore è il vento che s’incunea lamentoso tra le stradine e il frinire assordante delle cicale. Arrivarci è un’impresa degna delle fatiche di Ercole, tra strade crollate e mai ricostruite, e indicazioni che definire sommarie è un eufemismo, e se la giornata è particolarmente calda, tutta l’avventura può assumere tinte decisamente psichedeliche. Ma l’esperienza è davvero unica, e vale tutte le difficoltà.

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Fiumara d’arte

Non è esattamente un luogo sconosciuto, e infatti Fiumara d’arte è considerata uno dei più grandi parchi di sculture più grandi d’Europa, ed è celebrata su pressochè ogni rivista d’arte al mondo, ma il giro delle opere disseminate per i paesini dei Nebrodi è un’esperienza non esattamente comune. Se il mondo ha sentito parlare di Reitano, Motta d’Affermo e Castel di Lucio, il merito è tutto di Antonio Presti, mecenate e visionario che ha deciso di finanziare scampoli di bellezza e donarli al territorio. E quindi può capitare che dopo uno dei tornanti della statale montana che collega i set paesini del circuito turistico-culturale, si apra all’improvviso “una curva gettata alle spalle del tempo”, o che su una collina si scorga la piramide del 38° parallelo, o che si costeggi il muro di ceramica o il labirinto di Arianna. Il meglio dell’arte moderna e contemporanea è lì, a portata di mano, aperto a chiunque voglia fruirne: basta posteggiare a lato della strada, osservare, goderne in religioso silenzio, e ringraziare chi ha reso possibile tutto questo: Antonio Presti.

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Targa Florio

Cerda, Buonfornello, Scillato, Caltavuturo, Collesano: a nominarli, ancora oggi, sembra di sentire riecheggiare il rombo dei dodici cilindri di Porsche e Ferrari che per anni si sono sfidate lungo il circuito stradale delle Madonie. Oggi, dela corsa più antica del mondo non restano che le leggende, e quelle strette strade statali di montagna sulle quali sfrecciavano mostri da cinquecento e più cavalli, simbolo di un automobilismo che non c’è più da decenni. Ripercorrerle in auto, o in moto, è una di quelle esperienze che un appassionato dovrebbe per forza fare almeno una volta nella vita, anche solo per rendersi conto del coraggio, della perizia di guida e pure dell’incoscienza che di certo non difettavano a chi si cimentava nei 72 km della Targa Florio, gara valida per il mondiale prototipi per più di cinquant’anni, e oggi sostituita da un rally. Come disse il fondatore, principe Vincenzo Florio, “continuate la mia opera, perché l’ho creata per sfidare il tempo”. E non c’è modo migliore che inerpicarsi su quelle strade, partendo da Cerda, antico sito di partenza e arrivo della competizione, da quelle tribune oggi semiabbandonate che per una decina di giorni all’anno, dagli albori del secolo scorso, diventavano “Floriopoli”, e lasciarsi conquistare dal vento, dalle curve, dalle strade, dal suono del motore. Dalla leggenda.

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Il castello incantato di Sciacca

Filippo Bentivegna è un immigrato siciliano a Chicago, siamo intorno al 1919, che vive la vita degli immigrati siciliani a Chicago che non fanno parte di una gang: povero, sfruttato, emarginato. Un giorno, si dice per una lite d’amore, riceve una bastonata in testa che lo tramortisce. Torna a Sciacca, suo paese d’origine, parecchio cambiato. “Filippu u pazzu”, lo chiamano i compaesani. Perché, da analfabeta totale che era partito, appena rimette piede in Sicilia si mette a scolpire. Teste umane. Decine di teste umane. Centinaia. Tanto da non sapere dove metterle. E’ un’attività compulsiva, la sua, quella che arriva da una mano ineducata all’arte ma in qualche modo miracolosamente adatta alla bisogna. Per riconoscerne il talento servì l’interesse di un pittore svedese e, alla morte di Bentivegna nel 1967, di Jean Dubuffet, artista e teorico dell’”art brut”. Il podere ai piedi del monte Kronio che Bentivegna aveva comprato, diviene il giardino incantato, o il castello incantato, dato che Bentivegna era convinto di essere un re, un museo all’aperto bizzarro e  vagamente inquietante, ma di certo suggestivo e inconsueto, in cui le sculture di Bentivegna vivono nelle teste di roccia, ma anche nei tronchi degli alberi, intagliati da “Filuppu u pazzu”. Il catello, di proprietà della regione Siciliana, è gestito oggi da una cooperativa sociale.

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Castelmola

Per chi non è ancora sazio delle bellezze di Taormina (o non sopporta il casino estivo), basta fare un paio di km in più in salita per arrivare in un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato a cinquant’anni fa. Piccolina, ben curata, con un panorama mozzafiato che arriva fino a Catania, ed un castello da cui prende il nome, Castelmola è una bomboniera di vicoli stretti, salite, discese e case ormai quasi del tutto disabitate, che terminano tutte in piazza Duomo. E una volta lì, una sosta al celebre “bar dei cazzi”, il bar Turrisi, è d’obbligo. E se d’estate è stupenda, d’inverno Castelmola diventa magica. Arroccato in cima ad una montagna, in un equilibrio che sembra sempre precario, spesso Castelmola viene a trovarsi più in alto delle nuvole. E se da sotto scompare alla vista, e mentre ci si sale sembra di stare in Transilvania, dal belvedere in piazza ci si sente sul monte Olimpo, padroni del mondo, invisibile, sotto di sé.

 

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